20/10/2013
Vangelo della Domenica 29° del Tempo Ordinario
20/10/2013
20 ottobre 2013
XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
Es 17,8-13 / Sal 120 / 2Tm 3,14-4,2 / Lc 18,1-8
Riflessione di Don Pino
La preghiera è la nostra relazione con Dio, col creato e con gli altri fratelli: è la vita umana realizzata. Per questo bisogna pregare sempre, senza scorare. Conta stare con Lui e fidarsi. La preghiera è come un gridare giorno e notte verso di Lui - altro che devozionismo ! - e nasce dalla storia di chi grida. Dio esaudisce in fretta una tale preghiera che Gesù identifica con la fede stessa. La fede è il grido che l'uomo impara a rivolgere a Dio.
La salvezza viene in questo mondo nel quale Dio sembra assente e non in un mondo migliore. Si chiude con la domanda: il Figlio dell'uomo quando verrà troverà la fede? E si inizia con la necessità di pregare sempre. In mezzo c'è la parabola di un giudice che non ha rispetto per nessuno e che non interviene sul male che vede. Quel giudice è Dio e la vedova è la Chiesa, la sposa che cerca il suo diritto. In realtà il vedovo è lui, perché noi lo abbandoniamo, e desidera essere desiderato, graffiato sotto gli occhi (Fausti). Questa è la preghiera. Questo è il Regno di Dio!
C'è bisogno della preghiera, come della croce di Gesù per la salvezza. Pregare vuol dire che puoi avere una cosa soltanto se l'altro te la dà; il nostro rapporto con Dio - come ogni relazione umana - è sempre precario; la prima cosa che s'insegna al bambino è chiedere e dire grazie. È la base di ogni relazione. Anche tutto ciò che entra nella preghiera è grazia, chiesta e ricevuta in dono. Un padre del deserto ha scritto: una volta Dio ha ascoltato la mia preghiera, ma da allora non gli ho chiesto più nulla, ho sempre detto "sia fatta la tua volontà".
Vedova è la donna senza lo sposo, manca della sua parte e soffre. La richiesta "fammi giustizia del mio avversario", è come dire "liberami dal male", la domanda fondamentale del Padre nostro. La risposta pronta di Dio è il suo Regno, in mezzo a noi, dentro di noi. È provare lo stesso desiderio che il Signore ha verso di me. È questa la grande dignità della preghiera.
22/10/2013
XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
22/10/2013
27 ottobre 2013
XXX DOMENICA TEMPO ORD. - ANNO C
Sir 35,12-14.16-18; Sal 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
Chi si umilia sarà esaltato
La scorsa domenica abbiamo riflettuto sulla necessità di pregare sempre senza stancarci mai. Ora meditiamo su come dovrà essere la nostra preghiera per risultare particolarmente gradita al Cuore di Gesù. Le letture di oggi ci insegnano che, prima di tutto, la nostra preghiera dovrà essere umile. Il Libro del Siracide afferma con chiarezza: «La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto».
Per povero si intende l'umile di cuore che ripone la sua speranza non in se stesso ma in Dio.
Oltre a questa povertà di spirito, la prima lettura ci insegna che dobbiamo usare la carità verso il prossimo per trovare la benevolenza di Dio.
Se vogliamo essere esauditi da Dio, a nostra volta, dobbiamo esaudire la supplica di chi è nel bisogno. Se, al contrario, chiudiamo il nostro cuore di fronte a queste situazioni, come possiamo pretendere di essere ascoltati da Dio?
Si racconta che sant'Anselmo era sempre molto caritatevole verso i poveri e, a chi gli diceva che era fin troppo buono, egli rispondeva: «Ascolto sempre quelli che mi domandano qualcosa, nella speranza che anche Dio esaudisca sempre le mie preghiere».
Ecco dunque un modo molto concreto per migliorare nella nostra preghiera e per essere esauditi facilmente da Dio: essere umili e caritatevoli.
Ma è soprattutto il Vangelo che ci insegna la necessità di essere umili. Il brano di oggi ci presenta la scena di due uomini che andavano a pregare al tempio. Uno era fariseo, l'altro pubblicano.
Il fariseo era molto superbo, era pieno di sé, come diremmo noi. Si sentiva perfetto nell'osservanza della legge mosaica e guardava con disprezzo gli altri uomini che, secondo lui, erano ladri, ingiusti e adulteri. Soprattutto disprezzava quel pubblicano che era salito con lui al tempio.
I pubblicani erano considerati peccatori della più infima specie. Essi erano scesi a compromesso con l'odiato potere straniero e riscuotevano per esso le tasse, ricorrendo a raggiri e frodi per estorcere denaro a suo favore. Come minimo, si diceva che un pubblicano era un uomo senza onore e senza morale.
Il pubblicano della parabola si sentiva fortemente peccatore di fronte a Dio, rimaneva in fondo al tempio, non osava neppure alzare lo sguardo e ripeteva: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Ebbene, conclude Gesù: «Questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Per essere ascoltati da Dio, la preghiera del pubblicano – «O Dio, abbi pietà di me peccatore» – deve diventare anche la nostra preghiera. Purtroppo lo spirito farisaico è ancora oggi più vivo che mai.
Tante volte ci si sente a posto, ci si ritiene dei buoni cristiani per il solo fatto di andare alla Messa di domenica e di fare un po' di volontariato. Ma non ci si accorge, o meglio, non ci si vuole accorgere, dei molti peccati che gravano sulla nostra coscienza.
Non si pensa che, agli occhi di Dio, buon cristiano è colui che riconosce le proprie colpe e le confessa con dolore. Senza questa umiltà nulla piace a Dio.
Chiediamo alla Vergine Maria, l'umile Ancella del Signore, che ci doni questa disposizione interiore così importante. Preghiamola che ci stia sempre vicina e che non ci lasci neppure un istante. Con il suo aiuto riusciremo ad essere dei buoni cristiani.
27/10/2013
FESTA DEGLI APOSTOLI SIMONE E GIUDA
27/10/2013
La festa degli Apostoli
ci dà l'occasione di acquistare maggiore consapevolezza delle due imprescindibili dimensioni della Chiesa, che è corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo, e non può essere l'uno senza l'altro. E un'illusione credere di poter ricevere lo Spirito Santo senza far parte del corpo di Cristo, perché lo Spirito Santoè lo Spirito di Cristo e si riceve nel corpo di Cristo. La Chiesa come corpo di Cristo ha anche un aspetto visibile: per questo Gesù scelse i Dodici e sceglie nel tempo i loro successori, a formare la struttura visibile del suo corpo, quasi continuazione dell'incarnazione. Appartenendo al suo corpo, possiamo ricevere il suo Spirito ed essere intimamente uniti a lui in un solo corpo e in un solo Spinto.
La prima lettura, dalla lettera agli Efesini, esprime bene queste due dimensioni. "Siete edificati sopra il fondamento degli Apostoli e dei profeti, avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù": è l'aspetto visibile del corpo di Cristo, che è un organismo con la propria struttura. E in Cristo "la costruzione cresce ben ordinata":
ogni membro ha la propria funzione e il proprio posto. Scrive Paolo più avanti nella stessa lettera: "E lui (Cristo) che ha stabilito alcuni come Apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori...". Ognuno ha ricevuto la grazia "secondo la misura del dono di Cristo". Ed ecco la seconda dimensione, invisibile: "In lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito".
Anche nella prima lettera ai Corinzi Paolo mette in evidenza lo stesso concetto: "I vostri corpi sono membra di Cristo... Il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo" (6,15.19).
03/11/2013
XXXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
03/11/2013
3 Novembre 2013
XXXI DOMENICA TEMPO ORD. - ANNO C
(Lc 19,1-10)
Oggi per questa casa è venuta la salvezza
Il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che occupa gran parte del Vangelo di san Luca, è ormai quasi al termine. Il Signore si trova a Gerico, che allora era una importante città commerciale, centro di transito per tanti mercanti dell'epoca. Qui si inserisce la vicenda di Zaccheo che era un pubblicano, ovvero un funzionario che riscuoteva le tasse per conto degli odiati dominatori stranieri, e che, in quella città di fiorente commercio, aveva molti interessi. Si sa che i pubblicani erano considerati dei grandi peccatori, sia perché erano scesi a compromesso con i dominatori, sia perché angariavano il popolo con molte ingiustizie e soprusi.
Gesù era a Gerico e la folla accorreva da ogni parte per vederlo e per essere testimone o beneficiaria di qualche suo miracolo. In mezzo alla folla vi era pure Zaccheo, il quale, piccolo di statura, salì su di un sicomòro per poter vedere il Maestro che passava. Tutti si aspettavano che Gesù fulminasse quell'uomo con qualche parola di fuoco, che gli rinfacciasse davanti a tutti le sue grandi ingiustizie. Invece Gesù si rivolse a lui con parole di amicizia, dicendogli: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» .
Immaginiamoci la delusione e la rabbia di tanta gente che si aspettava delle parole di tutt'altro genere! Anche noi, molto probabilmente saremmo rimasti delusi, attendendoci una pronta e spietata giustizia. Ma non la pensava così Gesù, il quale, con la bontà e la misericordia, cerca sempre di guadagnarsi il cuore delle sue creature. A ciascun peccatore Dio rivolge questi inviti di misericordia; ma, se facciamo i sordi e abusiamo della sua Bontà, non tarda a venire il momento della giustizia.
Zaccheo coglie al volo quell'invito di Gesù e si precipita ai suoi piedi. Il testo del Vangelo dice: «Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia» . Era la prima volta che Zaccheo incontrò chi lo stimasse e l'amasse al punto da voler essere suo ospite. Secondo la legge di Israele non si poteva assolutamente entrare nella casa dei pubblicani. E così Gesù andò a casa di Zaccheo e questo suscitò ancora di più la rabbia e la mormorazione di molti, anzi di tutti, come dice l'evangelista Luca. Essi dicevano: «è entrato in casa di un peccatore» . Forse i più benevoli avranno pensato che Gesù ignorava chi fosse veramente Zaccheo; al contrario, Gesù andò da Zaccheo appunto perché lo conosceva nel profondo e lo voleva redimere.
Zaccheo si converte, si sente perdonato da Gesù, e sente impellente il desiderio di riparare a tutto il male compiuto, non soltanto restituendo quattro volte tanto quello che aveva rubato, ma addirittura dando ai poveri la metà di tutte le altre ricchezze da lui possedute.
Rivolgendosi poi a Zaccheo e, tramite lui, a tutta la folla, Gesù dice: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch'egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» .
Dio ci ha perdonato tante e tante volte. Anche noi dobbiamo sentire nascere in cuore il desiderio di riparare il male fatto. è questa una esigenza d'amore. Soprattutto il furto esige la restituzione. E, ricordiamolo sempre, non si ruba solamente estorcendo del denaro, ma anche compiendo svogliatamente il proprio lavoro. Inoltre, si ruba la buona fama al nostro prossimo sparlando di lui. Anche questo è un peccato che dobbiamo riparare, impegnandoci d'oggi in poi a dire bene di chi abbiamo danneggiato.
Anche a noi Gesù rivolge le parole: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Egli non viene dentro le nostre abitazioni materiali, ma viene dentro di noi nella Santa Comunione. Quando lo riceveremo, chiediamogli la grazia di una profonda conversione, di vivere sempre nella sua amicizia, la grazia di non danneggiare mai il prossimo, ma di beneficarlo sia nelle azioni come pure nelle parole.
Sia lodato Gesù Cristo
10/11/2013
XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
10/11/2013
10 novembre 2013
XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
2Mac 7,1-2.9-14 / Sal 16 / 2Ts 2,16-3,5 / Lc 20,27-38
È l'amore che vince la morte
La storiella paradossale di una donna, sette volte vedova e mai madre, è adoperata dai sadducei come caricatura della fede nella risurrezione dei morti: di quale dei sette fratelli che l'hanno sposata sarà moglie quella donna nella vita eterna?
Per loro la sola eternità possibile sta nella generazione di figli, nella discendenza. Gesù, come è solito fare quando lo si vuole imprigionare in questioni di corto respiro, rompe l'accerchiamento, dilata l'orizzonte e “rivela che non una modesta eternità biologica è inscritta nell'uomo ma l'eternità stessa di Dio” .
Quelli che risorgono non prendono moglie né marito.
Facciamo attenzione: Gesù non dichiara la fine degli affetti. Quelli che risorgono non si sposano, ma danno e ricevono amore ancora, finalmente capaci di amare bene, per sempre. Perché amare è la pienezza dell'uomo e di Dio. Perché ciò che nel mondo è valore non sarà mai distrutto. Ogni amore vero si aggiungerà agli altri nostri amori, senza gelosie e senza esclusioni, portando non limiti o rimpianti, ma una impensata capacità di intensità e di profondità.
Saranno come angeli.
Gesù adopera l'immagine degli angeli per indicare l'accesso ad una realtà di faccia a faccia con Dio, non per asserire che gli uomini diventeranno angeli, creature incorporee e asessuate. No, perché la risurrezione della carne rimane un tema cruciale della nostra fede, il Risorto dirà: non sono uno spirito, un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho (Lc 24,36). La risurrezione non cancella il corpo, non cancella l'umanità, non cancella gli affetti. Dio non fa morire nulla dell'uomo. Lo trasforma. L'eternità non è durata, ma intensità; non è pallida ripetizione infinita, ma scoperta “di ciò che occhio non vide mai, né orecchio udì mai, né mai era entrato in cuore d'uomo. “
Il Signore è Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Dio non è Dio di morti, ma di vivi.
In questo “di” ripetuto 5 volte è racchiuso il motivo ultimo della risurrezione, il segreto dell'eternità. Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reciproco, e che significa: Dio appartiene a loro, loro appartengono di Dio. Così totale è il legame, che il Signore fa sì che il nome di quanti ama diventi parte del suo stesso nome. Il Dio più forte della morte è così umile da ritenere i suoi amici parte integrante di sé. Legando la sua eternità alla nostra, mostra che ciò che vince la morte non è la vita, ma l'amore. Il Dio di Isacco, di Abramo, di Giacobbe, il Dio che è mio e tuo, vive solo se Isacco e Abramo sono vivi, solo se tu e io vivremo. La nostra risurrezione soltanto farà di Dio il Padre per sempre.
17/11/2013
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
17/11/2013
17 novembre 2013
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
Lc 21,5-19
E' capitato forse a più di qualcuno, e magari anche più di una volta, di venire, per così dire, "disturbato" dal solito guastafeste, nel bel mezzo di una esperienza piacevole che si sta godendo. Guasta feste capaci di condire i suoi discorsi con espressioni velenose, della serie "non ti illudere, non sai quello che ti aspetta", "adesso ti sembra tutto bello, ma lascia passare qualche tempo e vedrai". In genere si rimane senza parole e allibiti di fronte a questi pompieri della gioia come potrebbe accadere a chi gli viene tolta la sedia di sotto proprio nel momento in cui si sta sedendo. Insomma più di qualcuno deve aver fatto la brutta esperienza dell'incontro con queste persone fornitissime di estintori della gioia...
Il brano di vangelo di oggi fotografa proprio questa situazione. Racconta infatti di gente intenta a decantare lo splendore del tempio di Gerusalemme che viene drasticamente disturbata nel bel mezzo di questa forte emozione. Ma a differenza di quanto succede normalmente ai più e cioè di rimanere allibiti e senza parole (e magari prendendo a male parole il guasta feste) questa gente interroga Gesù che aveva appena sbriciolato il loro stupore con quel "verranno giorni in cui tutto quello che ammirate sarà distrutto". E questa gente interroga Gesù con una domanda realistica e pertinente, una domanda che suppone una fiducia totale nel Gesù guastafeste, una domanda che fa supporre che la sua fama non fosse proprio quella di un guastafeste. Infatti Gesù non è un catastrofista o un guastafeste e risponde con una risposta lunga e articolata e, a ben considerare, di altro e alto livello rispetto alla domanda di più basso livello postagli da quella gente.
Gesù non rimane al livello della informazione che gli viene chiesta, non si ferma alla superficie delle cose, ma va al profondo e pur descrivendo quel che accadrà al di "fuori" dell'anima (segni, catastrofi, disastri che farebbero perdere la speranza a chiunque...) si premura di vigilare sul "dentro" dell'anima. Rilassante e confortante quel "fate attenzione a non essere ingannati" e quel "non abbiate paura". Non si dovrà avere paura neppure quando la "disgrazia" toccherà da vicino, al punto da venire chiamati in giudizio e condannati a causa del suo Nome.
Anche allora suonerà come musica per le orecchie dell'anima quel "ritenete per sicuro che non vi dovete preoccupare"... Certo sarà dura, anzi durissima soprattutto quando addirittura i propri consanguinei remeranno contro e ci odieranno... ma "ma neppure un capello del vostro capo sarà perduto".
E così, la martellante serie di raccomandazioni a non aver paura di niente, si chiude con un apprezzamento formidabile rivolto a chi saprà vivere di perseveranza e con il solito paradossale e quasi minaccioso monito "chi perderà la propria vita la salverà, chi vorrà salvare la propria vita la perderò". Qualche ricercatore attento ha scoperto che il monito a "non aver paura" ricorre per ben 365 volte nel testo della Bibbia. Quando Gesù insegnerà a pregare come Dio comanda inventerà su due piedi il Padre nostro dove si recita "dacci oggi il nostro pane quotidiano". Questa insistenza sul "presente" (che qualcuno ha definito "il punto di contatto tra l'eternità e il tempo" mettendo in guardia contro la subdola tentazione di preoccuparsi del domani...) ci obbliga ad una serenità quotidiana nel modo di vivere il proprio tempo... appunto perché nutriti dal "Pane" fresco di giornata e da quell'integratore e tonificante dell'anima costituito dalla speranza gioiosa.
il vostro don
24/11/2013
XXXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) Solen
24/11/2013
24 novembre 2013
XXXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
solennità di Gesù Cristo Re dell'Universo
2Sam 5,1-3 / Sal 121 / Col 1,12-20 / Lc 23,35-43
Oggi con me sarai nel paradiso
Con la solennità di Gesù Cristo Re dell'Universo, siamo ormai giunti al termine dell'Anno liturgico. Gesù è il nostro Re per due motivi: prima di tutto, perché Egli, insieme al Padre e allo Spirito Santo, è il nostro Creatore; e, secondo motivo, perché Egli è il nostro Redentore, Colui che ci ha salvati dal peccato con la sua Morte in croce. Per questi due motivi noi siamo totalmente suoi, a Lui apparteniamo.
Questa festa ci ricorda che l'essere umano non potrà mai essere emancipato, esso appartiene sempre a qualcuno: o riconosce la sua appartenenza a Gesù, oppure diventa schiavo del peccato. Non vi è altra soluzione. C'è però una grande differenza tra queste due appartenenze: il peccato ci rende schiavi nel senso più brutto del termine; invece, nell'appartenenza a Gesù, noi troviamo la vera libertà.
Non a caso, il brano del Vangelo di oggi riporta la scena di Gesù che muore in croce. E' dall'alto della croce che Gesù ci ha riscattati e ci ha donato la libertà dei figli di Dio. Accanto a Gesù morente in croce vi era anche il buon ladrone, il quale, pentitosi dei suoi numerosi peccati e illuminato da Dio, riconobbe la regalità di Gesù, chiese perdono e pregò: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.
Il buon ladrone non si aspettava che da un momento all'altro Gesù si manifestasse nella sua regalità; egli pensava al mondo futuro, quando, secondo la fede e la speranza di Israele, il Messia avrebbe compiuto il Giudizio di Dio; l'avvento del suo regno coincideva con la trasfigurazione dell'Universo. La risposta di Gesù infrange questa prospettiva: “In verità io ti dico, oggi con me sarai nel paradiso”.
Gesù usa un linguaggio solenne, è un vero e proprio giuramento che sottolinea il certissimo e puntuale compimento. E' l'unica volta che Gesù nel Vangelo fa a qualcuno una promessa del genere come ad indicare l'eccezionalità dell'ora che determina alla storia umana una svolta decisiva. La porta del Paradiso che era a noi chiusa per il peccato di Adamo ed Eva si riapre grazie alla Morte in croce di Gesù. E il buon ladrone è il primo che vi entra.
Nel buon ladrone dobbiamo vedere ciascuno di noi. Siamo carichi di peccati, è vero; ma, se ci pentiamo di vero cuore, Gesù ci perdonerà e ci condurrà con sé nel suo regno di luce infinita. Per giungere a tale pentimento, contempliamo con gli occhi del cuore Gesù che muore in croce per noi; consideriamo che siamo stati noi a metterlo su quella croce, con i nostri peccati. Se vogliamo che Gesù regni in noi, in nessun modo deve in noi regnare il peccato. Da parte nostra, inoltre, vi deve essere la più grande riconoscenza. Se Gesù non ci avesse redenti, noi saremmo stati per sempre schiavi del peccato, incatenati per l'eternità. Ringraziamo dunque Gesù per la sua infinita Bontà.
Vogliamo infine soffermare la nostra attenzione su due parole dette da Gesù al buon ladrone, due parole molto piccole ma molto importanti. Le parole sono le seguenti: “Con me”. Queste parole nel testo originale greco esprimono una vita condivisa, un comune destino. Questa eterna e beata comunione di vita tra noi e Gesù è la grande novità del Vangelo. Insegnava sant'Ambrogio che “la vita è essere con Cristo, perché dov'è Gesù Cristo, là è la vita, là è il regno”, cioè tutta intera la felicità.
Fin da adesso, proponiamoci di vivere sempre con Gesù. Vivere con Lui significherà fare dell'Eucaristia il centro della nostra vita. Vi è chi riceve la Comunione anche ogni giorno e non può farne a meno. Ma non basta solamente riceverlo materialmente, bisogna accoglierlo con tutto il cuore, parlare familiarmente con Lui ogni volta che lo riceviamo.
Per vivere sempre più uniti a Lui, ricordiamoci di nutrire una tenera devozione alla Madonna. è Lei che ci conduce a Gesù. Come Lui è venuto a noi per mezzo di Maria, così anche noi dobbiamo andare a Lui accompagnati per mano di Colei che è la nostra tenerissima Madre.
01/12/2013
1 dicembre 2013 Prima Domenica di Avvento (Anno A
01/12/2013
1 dicembre 2013
I Domenica di Avvento (Anno A)
Is 2,1-5 / Sal 121 / Rm 13,11-14 / Mt 24,37-44
Riflessione di Don Pino
Mai come oggi il mondo ha bisogno di un supplemento di speranza. Ma per ottenerlo: quali vie da seguire? E quali prese di coscienza sono necessarie?
1. Un supplemento di speranza per il mondo d'oggi.
Scrive il profeta Isaia: " Alla fine dei giorni verranno molti popoli e diranno: “ Venite, saliamo al Tempio del Dio di Giacobbe, perché Egli ci indichi le sue vie e possiamo camminare sui suoi sentieri”. (1? lettura)
Il profeta, alludendo alla futura venuta del Messia, (= alla fine dei giorni) ci dice che verrà un tempo nel quale il Monte Sion, sul quale sorge Gerusalemme diverrà:
1. Polo di attrazione per tutti i popoli
2. Segno di pacificazione generale (Gerusalemme = città della pace).
Ma a quali condizioni? Isaia ne segnala due: lasciarsi indicare da Dio:
1. Le sue vie e
2. Come percorrerle.
1. Le vie e i sentieri di Dio:
2. Per quanto riguarda la Parola di Dio, questa ci propone i Comandamenti e le Beatitudini, come le due migliori autostrade da percorrere nella vita;
3. Per quanto riguarda invece gli insegnamenti degli Apostoli, S. Paolo scrivendo ai cristiani di Roma, li esorta a mettere in atto alcuni imperativi necessari a tutti, per un buon cammino di fede. Egli infatti così li riassume:
4. E' tempo di svegliarvi dal sonno. Uno dei pericoli più frequenti della vita cristiana purtroppo è il sonno della ragione per quanto riguarda la fede, il sonno del cuore per quello che si riferisce alla vita morale, e il sonno della missione per quanto riguarda l'azione missionaria del cristiano.
Cari miei, mentre voi dormivate un nostro nemico comune, di notte ha seminato l'erba velenosa!.
Se purtroppo oggi nel mondo, insieme al bene, c'è anche tanto male, non potrebbe dipendere anche dal sonno di noi cristiani? Infatti dice Gesù: " I figli delle tenebre sono più svegli (= scaltri) di quelli della luce".
1. Gettate via le opere delle tenebre, cioè scrollatevi di dosso tutte le possibilità di fare il male a voi stessi e agli altri.
2. Indossate le armi della luce, il che equivale a potenziare in noi, tutte le occasioni, per vivere nella trasparenza delle nostre azioni, sia davanti a Dio, che davanti al prossimo.
3. Abbiate un comportamento corretto, nella vostra vita personale, non imitando i contemporanei di Noè, che lo snobbavano con le loro bolge, non sapendo invece, che andavano incontro al "diluvio", delle loro malefatte.
4. Rivestitevi di Cristo, vivendo non secondo le esigenze degli istinti umani, ma secondo le mete luminose dello spirito.
Si deve operare nel modo adatto per cercare di rendere minore, quel male che non si è in grado di volgere in bene”.
1. Come percorrere le vie e i sentieri del Signore? Dalle letture di oggi, scaturiscono tre prese di coscienza da parte di ciascuno di noi, per evitare di andare fuori strada dal percorso di Dio e delle sue vie:
2. " Fratelli! La notte è avanzata, il giorno è vicino".
Già S. Paolo metteva in guardia i fedeli di Roma dal pericolo di una società brancolante nel buio; oggi purtroppo la situazione si è aggravata, per il fatto che l'esasperazione del permissivismo, dell'indifferenza religiosa, dell'idolatria delle nuove scienze tecnologiche, costituiscono un serio pericolo per la nostra vita cristiana. Però l'Apostolo lascia intravedere anche lo spiraglio della speranza, perché " Il giorno", cioè la Luce di Cristo non può essere soffocata da nessuno e da niente.
1. Lo stordimento cronico e multiplo a cui tutti siamo sottoposti ogni giorno dal bombardamento acustico, mediatico e informatico, col rischio di non avere più il tempo e il gusto del silenzio e del riflettere.
2. La vigilanza, come capacità della mente e dello spirito, nel tenere sempre pronte le valige, per l'imprevedibile approdo al porto dell'eternità. Ci dice infatti il Signore: " State pronti, perché nell'ora che non immaginate, il Figlio dell'uomo verrà". (3? lettura).
Conclusione.
Con oggi parte il nuovo anno liturgico: tempo di Avvento, tempo di attesa gioiosa della presenza nascosta di Cristo in mezzo a noi, ma anche tempo di vigilanza, per non cadere nel buio della dimenticanza, o del rifiuto di Dio. La vera notte del mondo in cui ci troviamo, non è causata dall'assenza di Dio, ma dal fatto, che gli uomini non soffrono più di questa assenza.
AUGURI Buon Avvento
il vostro Don
08/12/2013
8 Dicenbre 2013 - IMMACOLATA CONCEZIONE - ANNO A
08/12/2013
8 DiceMbre 2013
IMMACOLATA CONCEZIONE - ANNO A -
Lc 1,26-38
Il testo dell'annunciazione è troppo noto perché ci sia bisogno di spiegazioni testuali. Luca ci presenta un quadro fatto di bellezza e armonia che mira a descrivere due realtà fondamentali: l'avvento del messia e la scelta di Maria. Il messia arriverà finalmente, al termine di una lunghissima attesa, fatta di fede e speranza, ma in un modo inaspettato; la scelta di un povera e giovanissima ragazza di Nazareth che conferma ciò che solo pochi nell'Antico Testamento hanno capito e cioè che Dio sceglie a partire dai piccoli, dai poveri, da ciò che il mondo disprezza perché essi sono i più vicini al suo cuore.
Maria, invece, è una ragazza che oltre a tutte le caratteristiche che la tradizione e la pietà cristiana nei secoli le hanno attribuito, presenta nel testo di Luca una grande fede e un grande abbandono a Dio. Non capisce tutto, ma non contesta; non sa come e perché, ma non accampa diritti o chiede spiegazioni. Sa solamente che il Signore l'ha visitata e può rendere possibile anche l'impossibile, rendere storia ciò che nemmeno la speranza osava presupporre. La risposta di Maria, l'``Ecco'' che esce dalla sua bocca rimanda all'``Eccomi'' che tutta la tradizione dei patriarchi ci ha abituato a sentire, la disponibilità totale; ecco sono qui tutta davanti a Te o Signore, pronta a fare la tua volontà.
Riflettiamo insieme
Quante volte ci sembra di non capire? Quante volte il nostro cuore si apre alla fede e all'attesa della volontà di Dio? Siamo capaci di guardare ai piccoli come il punto di partenza della nostra comprensione della realtà e del piano che il Signore ha sul nostro mondo?
il vostro don
15/12/2013
15 dicembre 2013 - III Domenica di Avvento (Anno
15/12/2013
15 dicembre 2013
III Domenica di Avvento (Anno A) – Gaudete
Is 35,1-6.8.10 / Sal 145 / Gc 5,7-10 / Mt 11,2-11
Le opere di Gesù sono la risposta alle domande di Giovanni che aveva annunciato un Messia "più potente", che "battezza col fuoco", brucia lo scarto della trebbiatura e agita quell'arnese a forma di pala per ventilare il grano. Solo che la forza di Gesù è quella dell'amore che ridona la vista, raddrizza gli storpi, risana le piaghe, ridona l'udito, risuscita dai morti, annuncia la misericordia e il perdono. Gesù è diverso da come lo attendevano allora e da come ce lo aspettiamo oggi. Così com'è, il Vangelo della croce mette a dura prova la fede di tutti. Gesù è una bellissima sorpresa. Anche per Giovanni il Battista.
Anche Giovanni è sorprendente: un uomo fermo nella verità anche davanti ai potenti, un uomo povero come tutti gli inviati di Dio. Per questo Gesù lo chiama "più che un profeta", "il più grande tra i nati di donna".
Il discorso, però, continua. Se Giovanni è "il più grande tra i nati di donna", tuttavia "il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui". Si passa dai figli dell'uomo ai figli di Dio che sono i "più piccoli". La vera grandezza è la piccolezza. La grandezza è del Padre.
L'eco delle opere di Gesù arriva in fondo al carcere dove sta Giovanni che, attraverso i suoi, pone la domanda che contiene tutta l'attesa del popolo di Dio: sei tu quello che viene? La risposta di Gesù al grande profeta è essa stessa profetica perché indica il luogo dove riconoscere l'avveramento delle promesse messianiche. Purché non ci si scandalizza di lui, della sua croce, della debolezza dei suoi ministri, della piccolezza dei figli del Padre.
Gesù dice ai discepoli di Giovanni: "Andate e riferite ciò che voi udite e vedete". Si crede per aver sentito, ma anche per aver visto. Questa è la testimonianza sostanziale per comunicare il Vangelo.
La predicazione di Giovanni prepara la via a Gesù. Il Signore, a sua volta, esalta l'opera di Giovanni. In realtà, per entrambi, è la croce il grande mezzo dell'esaltazione e di tutta la profezia contenuta nelle Scritture. Ecco perché non è facile riconoscere il messia di Dio.
22/12/2013
22 dicembre 2013 - IV Domenica di Avvento (Anno A)
22/12/2013
22 dicembre 2013
IV Domenica di Avvento (Anno A)
Is 7,10-14 / Sal 23 / Rm 1,1-7 / Mt 1,18-24
Due nomi per il Figlio. L'angelo consegna a Giuseppe il nome per il figlio e ne spiega il significato: Gesù è colui che libera dai peccati. L'evangelista Matteo, poi, gliene attribuisce un secondo: Emmanuele, Dio con noi. Gesù è vero Dio e vero uomo; solo perché veramente Dio poteva farsi anche veramente uomo, della stessa nostra condizione di creature deboli e fragili, impaurite dinanzi alla morte.
Più che della nascita di Gesù, questo Vangelo di Matteo racconta l'annuncio a Giuseppe della maternità verginale di Maria, sua sposa. Quello di Luca raccontava l'annuncio di Gabriele a Maria. Luca e Matteo, però, non scrivono cronaca, ma teologia.
All'epoca il matrimonio aveva due fasi: dopo la firma di un vero contratto davanti ai genitori e a due testimoni, passava ancora un anno prima che andassero a vivere insieme. Dopo un anno c'era la festa con la sposa condotta alla casa del marito e iniziava la vita in comune. L'annunciazione a Maria avvenne durante quell'attesa e la sua gravidanza fu opera dello Spirito Santo (ruah-spirito in ebraico è femminile, indica una forza, un soffio creatore). Il concepimento verginale non è svalutazione della sessualità. Rivela che Gesù viene dall'alto, è il Signore che ha assunto la natura umana.
Il dubbio di Giuseppe dice la prova della sua fede e il sogno potrebbe essere il soccorso del Signore che gli rivela il suo disegno. Certamente tutto porta a vedere, nel figlio di Maria, l'erede del trono di Davide, promesso dai profeti; Gesù è realmente il "Dio con noi". Anche l'ultimo rigo di Matteo lo confermerà: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). In Gesù, Dio resta sempre a fianco dell'uomo.
In quel tempo la verginità era da commiserare, come per un albero senza frutti, una donna irrealizzata nel sogno di essere madre. Se la verginità è il simbolo dell'amore totale per il Signore, Maria vergine è la prova della grandezza e della forza dell'amore di Dio, il solo che sa trarre vita anche dal terreno sterile. Anche noi siamo provati nella fede ma sorretti dai segni della vittoria della vita.
22 dicembre 2013
IV Domenica di Avvento (Anno A)
Is 7,10-14 / Sal 23 / Rm 1,1-7 / Mt 1,18-24
Giuseppe non temere di prendere Maria, tua sposa
In questa quarta domenica di Avvento il Vangelo di san Matteo narra come avvenne la nascita di Gesù ponendosi dal punto di vista di san Giuseppe. Egli era il promesso sposo di Maria, la quale, "prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo". Il Figlio di Dio, realizzando un'antica profezia, diventa uomo nel grembo di una vergine, e tale mistero manifesta insieme l'amore, la sapienza e la potenza di Dio in favore dell'umanità ferita dal peccato. San Giuseppe viene presentato come "uomo giusto", fedele alla legge di Dio, disponibile a compiere la sua volontà. Per questo entra nel mistero dell'Incarnazione dopo che un angelo del Signore, apparsogli in sogno, gli annuncia: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suo i peccati". Abbandonato il pensiero di ripudiare in segreto Maria, egli la prende con sé, perché ora i suoi occhi vedono in lei l'opera di Dio.
E Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa. In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa, come ha sottolineato il beato Giovanni Paolo II: San Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all'educazione di Gesù Cristo, così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è figura e modello.
Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all'episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e tutto l'amore ogni momento. E' accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazareth, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù.
Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio. Giuseppe è "custode", perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. "In lui vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!
Un'ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d'animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all'altro, capacità di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!"
Nei momenti difficili della vita di Giuseppe (prendere Maria in sposa, fuga in Egitto, risalita dall'Egitto stesso) c'è sempre lo stesso schema: vede in sogno, si sveglia e parte! Vuol dire che sa di stare con tutto se stesso nel mistero, ma che non ha mai preteso di dire a Dio cosa fare, non si è mai "scandalizzato" di Dio e così ne ha potuto costatare la fedeltà e toccare con mano i prodigi. Ma come faceva? Forse la risposta è facile: prendeva sul serio Dio! Giuseppe, senza chiacchiere, ma con la vita, faceva la sua professione di fede e annunciava che lui al Signore ci credeva, che la Parola di Dio vale più di quello che vedo con gli occhi.
Così come Maria, la Vergine che concepisce per la potenza di Dio, sa dire il suo "Sì" generoso, umile, totale. Anche per noi: Dio dice "sì" all'uomo, l'uomo è chiamato a realizzarsi e a salvarsi, dicendo il suo "sì" a Dio. Così è un "buon Natale"
29/12/2013
25 dicembre 2013 - Natale del Signore
29/12/2013
NOTTE DI NATALE 2013
Sono tante e tanto preziose le cose che ci uniscono! E se realmente crediamo nella libera e generosa azione dello Spirito, quante cose possiamo imparare gli uni dagli altri! Non si tratta solamente di ricevere informazioni sugli altri per conoscerli meglio, ma di raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi.
La ragione della nostra speranza e questa: Dio e con noi. Ma c' e qualcosa di ancora più sorprendente. La presenza di Dio in mezzo all'umanità non si e attuata in un mondo ideale, idilliaco, ma in questa mondo reale. Egli ha scelto di abitare la nostra storia così com' è, con tutto il peso dei suoi limiti e dei suoi drammi, per risollevarci dalla polvere delle nostre miserie, delle nostre difficoltà.
Di fronte alla quotidiana urgenza del vivere che ci accomuna tutti e che sembra azzerare ogni speranza, il Natale ha ancora qualcosa da dire? E solo un ricordo che evoca buoni sentimenti o la notizia di un fatto capace di incidere nella vita reale?
Per Natale, quest'anno, ho fatto due presepi: uno in casa e un secondo nella stalla. Disponendo di una stalla con tanto di greppia, mi pareva che quella fosse la collocazione più adeguata: tanto che poi ho deciso di lasciarlo, anche durante l'anno. Anziché un'altra immagine sacra egli era lì, tra il disordine e i topi; come forse neanche a Betlemme gli mancavano.
La paglia, Gesù Bambino e basta. E' un presepio da poveri; ma è il Signore che seguita a nascere, ogni anno, ogni giorno; e non finisce mai di nascere, e non finisce mai di morire, e non finisce mai di risorgere, nella carne del mondo. Nasce non tanto “nell'anima”, come un'ascesi tutta spiritualistica ci ha insegnato a ripetere: nasce nella vita; nasce dal nostro ascolto, dalla nostra attesa, dal nostro umile e docile accordarci con i ritmi profondi delle cose. E noi gli siamo grembo, cesto, nido.
L'incarnazione non è una storia privata: è la storia del mondo; e Cristo non nasce solo nella greppia. Il Verbo sposa la terra e si fa terra, carne, tempo, storia, finitezza, condizionamento, situazione umana, nella sua complessità e nella sua povertà, vita del mondo, con la sua concretezza e i suoi limiti. E la vita - questa vita assunta da Dio - è fatta di me, di voi, di storie e di destini innumerevoli, di vicende cosmiche e di ciò che accade ogni giorno. Anche di neve è fatta, la vita, e di germogli che dormono, di gatti che ronfano, di stufe che borbottano.
Un augurio per un sereno Natale nella gioia e nella sobrietà di Cristo, luce delle genti. BUON NATALE
il vostro don
02/01/2014
26 Dicembre 2013 - SANTO STEFANO
02/01/2014
SANTO STEFANO
Stefano, il primo martire cristiano, era uno dei primi sette diaconi, il cui dovere era quello di porsi al servizio della Chiesa e degli apostoli. Come servo di Cristo, Stefano era contento di essere come il suo Signore, e, nel momento della sua morte, fu molto simile a lui. Potrebbe sembrare che il Vangelo di oggi sia stato scritto a proposito di santo Stefano. Quando si trovò di fronte al sinedrio, lo Spirito Santo lo ispirò ed egli parlò con audacia; non solo respinse le accuse che gli erano state mosse, ma accusò a sua volta i suoi accusatori. Il suo sguardo era sempre rivolto al Signore, tanto che il suo volto splendeva come quello di un angelo e rifletteva la gloria di Cristo, che era in lui. La somiglianza tra santo Stefano e il suo Signore non è solo esteriore: nel momento della sua morte, Stefano rivelò le intime disposizioni del suo cuore, pregando perché i suoi assassini fossero perdonati, una preghiera che diede frutti più tardi, con la conversione di san Paolo. Santo Stefano, il cui nome significa “corona”, si procurò la corona del martirio dopo esservisi preparato con una vita di fedeltà al servizio di Cristo.
Stefano il primo martire, tinge di rosso il Natale zuccheroso, per ricordarci che questo bambino è già, e per sempre, un segno di contraddizione...
Come a Pasqua, così a Natale abbiamo la fortuna di avere conservato, della splendida cultura ebraica, i nostri amati e bastonati fratelli maggiori, il ritmo settimanale della festa: non esiste una festa che non duri almeno sette giorni. Una provocazione, una mossa tutta da ridere in questi tempi del fast-tutto in cui cambiamo il cellulare ogni tre mesi e mangiamo in dieci minuti. Una settimana di tempi supplementari, in cui ancora dire: "buon Natale", in cui prendersi i famosi dieci minuti per fare un salto a Betlemme e lì fermarsi a meditare, come la giovane adolescente di Nazareth, Maria la bella, che conserva nel cuore e mette insieme tutti i pezzi che hanno scombinato la sua vita. Una settimana per accorgersi, anche i più masticati dalla festività, coloro che hanno il cuore devastato dalla tristezza, della follia di Dio. E proprio per loro la Chiesa, oggi, con una incredibile ricorrenza: quella della festa del primo martire. È come se la fede ci dicesse: quel bambino che nasce suscita divisione, odio, rancore, obbliga a schierarsi. Natale non è solo un coro di voci bianche e di zampogne, di dolci melodie e di clima ovattato: è soprattutto il dramma di un Dio presente, e di un uomo che non lo accoglie.
il vostro don
29/12/2013
29 dicembre 2013 - FESTA DELLA SACRA FAMIGLIA (Ann
29/12/2013
29 dicembre 2013
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (Anno A)
Sir 3, 3-7.14-17 / Sal 127 / Col 3,12-21 / Mt 2,13-15.19-23
Senza famiglia non c'è storia
I giorni dopo il Natale si distendono nella contemplazione del mistero del Signore Gesù, e di quanto è accaduto nella sua vicenda umana.
La liturgia ci accompagna oggi dentro il mistero della famiglia di Nazareth.
Scopriamolo insieme ed insieme ci meraviglieremo di quanto quella famiglia di 2000 anni fa è simile alle nostre famiglie di oggi.
Incredibile! Gesù, la sorgente di vita, il Redentore, la luce dei non credenti, l’onore di Israele, è destinato ad essere un segno di contraddizione; egli che è chiamato a portare la redenzione dovrà, nello stesso tempo, essere la spina che provocherà la perdita di molti uomini. E colei che ha dato alla luce il Redentore, che ha unito in sé l’amore di Dio e quello dell’uomo, è destinata a sopportare il dolore della spada che trapassa il cuore!
Tutto ciò sembra strano, eppure è stato proprio così: l’incredibile è successo.
La profezia di Simeone si compie nella sua totalità nei secoli.
Il cuore di Maria ha conosciuto il dolore di sette spade che lo trapassavano quando lei tremava per la vita del Bambino durante la fuga in Egitto; quando lo vedeva sfinito, non compreso, umiliato nel suo apostolato; quando venne arrestato, processato, torturato, e quando lo accompagnò nella via della croce, vedendolo soffrire e morire sulla croce. Ancora oggi Maria continua a soffrire con noi quando pone il suo sguardo sulle nostre pene e sulle nostre sofferenze, continua a soffrire con noi che rischiamo, coi nostri peccati, di perderci.
È raro vedere un ritratto o una statua della Madonna sorridente, mentre quasi in ogni chiesa vediamo rappresentata Maria addolorata.
Gesù è venuto dai suoi, ma i suoi non l’hanno accolto ha portato la luce, ma il mondo è rimasto nelle tenebre. Gesù cercava la redenzione di tutti, ma molti l’hanno respinto, hanno lottato contro di lui. Per costoro è divenuto un segno di condanna. Per questo è segno di divisione: ognuno di noi porta in cuore delle contraddizioni e si scontra con degli ostacoli per seguire Gesù. Dobbiamo imparare ad accogliere il suo amore.
Noi tutti abbiamo nostalgia dell’amore. Ma la nostalgia non basta. Occorre che i raggi dell’amore ci raggiungano e si infiammino per divenire un grande fuoco che ci scaldi e che ci dia il coraggio di vivere e di sacrificarci in nome di Cristo, affinché la Madre di Dio possa guardarci non più con le lacrime agli occhi, ma col sorriso.
La famiglia più strana della storia dell'umanità ci viene proposta, oggi, come modello per le nostre famiglie concrete. È un richiamo forte alla dimensione verticale della relazione familiare...
Siamo - ahimè - abituati a considerare il tempo diviso in feriale e festivo. Altro è lo scorrere ripetitivo e noioso dei giorni, altro è l'evento cui ci prepariamo con gioia intensa; altra la fatica del lavoro altra l'ebbrezza delle ferie estive. Nazareth ci insegna che Dio viene ad abitare in casa, che nella quotidianità e nella ripetitività dei gesti possiamo realizzare il Regno, fare un'esperienza mistica, crescere nella conoscenza di Dio. Possiamo (sul serio!) elaborare una teologia del pannolino, un trattato mistico dei compiti dei figli, un percorso spirituale della rateizzazione del mutuo. La straordinaria novità del cristianesimo è - appunto! - la sua assoluta ordinarietà. Coppie che avete un figlio primogenito: la vostra fatica e le notti insonni, il rapporto faticoso tra voi a causa della stanchezza e le preoccupazioni, sono le stesse di Maria e Giuseppe. Amici che vivete problemi al lavoro: anche Giuseppe ha passato notti agitate prima di chiedere un mutuo, per poter allargare la bottega da falegname. Donne che avete consacrato la vostra vita ai figli: anche Maria ha avuto un velo di tristezza negli occhi quando ha visto il suo primo capello bianco... Dio ha deciso di abitare la banalità, di colmare lo scorrere dei giorni.
il vostro don
01/01/2014
1 gennaio 2014 - Maria Santissima Madre di Dio
01/01/2014
1 gennaio 2014
Maria Santissima Madre di Dio
Nm 6, 22-27 / Sal 66 / Gal 4,4-7 / Lc 2,16-21
Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore
Oggi è il primo giorno dell'anno e, come ogni anno, in questa giornata celebriamo la solennità di Maria Santissima Madre di Dio. Questa Festa è stata collocata dal papa Paolo VI otto giorni dopo la solennità del Natale. Secondo la legge d'Israele, otto giorni dopo la nascita di un bambino ci doveva essere il rito della circoncisione; per questo motivo il brano del Vangelo di oggi riporta anche il racconto di quell'avvenimento nella vita del piccolo Gesù. Provvidenzialmente questo ottavo giorno dopo il Natale coincide con il primo dell'anno, ed è cosa molto bella iniziare un nuovo anno nel Nome di Maria, celebrando una Festa che è tra le più belle in suo onore.
Dire che la Madonna è Madre di Dio sembrava cosa troppo ardita, anzi, impossibile. Come può una creatura essere chiamata con il titolo di Madre di Dio? Ecco che nei primi secoli del Cristianesimo si discusse molto se era lecito o no usare un tale termine. La risposta definitiva venne con il Concilio di Efeso nel 431. Durante questo Concilio, i vescovi lì riuniti insegnarono che è Verità di fede affermare che la Madonna è Madre di Dio per il semplice fatto che Gesù è la Seconda Persona della Santissima Trinità che, nella pienezza dei tempi, si è incarnata, ha preso la nostra natura umana. Gesù, dunque, è vero Dio e vero uomo. È un'unica persona, la Seconda Persona della Santissima Trinità, in due nature: la natura divina preesistente e la natura umana. Dal momento che la persona è comunque divina, la Vergine Maria è Madre di Dio.
Diventare Madre di Dio è il massimo a cui possa arrivare una persona umana. Per questo motivo, alcuni antichi teologi parlavano di Maria come il confine tra il creato e l'increato: al di là di questo confine vi è solo Dio.
La Madonna non è solamente Madre di Dio ma è anche Madre nostra. Questa è una verità molto consolante. Diventando Madre di Gesù, Maria è diventata anche Madre nostra, di noi che siamo le membra del Corpo mistico di Cristo. Oggi, in questa bella Solennità, siamo chiamati a riflettere sull'importanza della devozione mariana. Il papa Paolo VI, in una predica, insegnava che non si può essere cristiani senza essere mariani, ovvero senza nutrire una tenera devozione alla Madonna. La devozione alla Madonna non è qualcosa di facoltativo, lasciato alla nostra libera decisione, ma è qualcosa di essenziale per il semplice fatto che siamo cristiani e Gesù vive in noi. Se vive in noi, Gesù ama in noi. Ama il suo Padre Celeste e ama la sua Madre Immacolata. Per questo motivo possiamo dire che la devozione mariana è come un segno bellissimo della presenza di Gesù in noi: non siamo noi ad amare l'Immacolata, ma è Gesù che la ama in noi. Tutti pertanto devono essere devoti alla Madonna e, quanto più lo saremo, tanto più assomiglieremo a Gesù.
Una grande devozione alla Madonna è il modo più bello e più facile per giungere alla salvezza eterna. Diversi Santi ci assicurano che non si perderà colui che ama la Madonna e la prega con perseveranza. Sia questo dunque il nostro impegno nel nuovo anno che è appena iniziato: pregare con fiducia e perseveranza Colei che è la nostra Madre.
Si racconta che san Bernardino da Siena, quando era ancora giovane, giunta la sera, usciva di casa e vi ritornava dopo diverso tempo. Una sua parente, temendo che il giovane Bernardino avesse trovato qualche brutta compagnia, una sera lo seguì di nascosto; ma fu grande la sua consolazione quando vide che egli, uscito dalla porta della città, si fermava davanti ad una immagine mariana che aveva "rapito il suo cuore", e lì pregava a lungo. Rassicurata da ciò, la parente tornò a casa in pace.
Imitiamo questo esempio. Cerchiamo anche noi una immagine mariana che ci piaccia e che parli al nostro cuore; rechiamoci spesso a visitarla, e parliamole "con il cuore in mano". Saranno quelli i momenti più belli della giornata. Ella, la nostra Madre tenerissima, avrà sempre qualche nodo da scioglierci.
il vostro don
05/01/2014
5 gennaio 2014 - II Domenica dopo Natale
05/01/2014
5 gennaio 2014
II Domenica dopo Natale
Sir 24,1-4.12-16 / Sal 147 / Ef 1,3-6.15-18 / Gv 1,1-18
Prima domenica dell'anno nuovo. Ci manca ancora un giorno di riposo, prima che l'Epifania ogni festa si porti via. Almeno così dice la tradizione popolare. Adesso che il Natale è passato, riaccendendo un bagliore di luce nei nostri cuori - come una parentesi serena - ci rimane, tra qualche giorno, da riporre nelle scatole addobbi, luci intermittenti, albero e presepe fino al prossimo anno liturgico. Tutto finito...?!
No, grazie a Dio la Liturgia va sempre contro la corrente del mondo a favore della corrente dell'anima... Non ci porta via nessuna festa, ma domenica dopo domenica, nel primo giorno della settimana - il primo giorno della creazione e quello della resurrezione - essa ci aiuta a fermarci e a rendere lode a Dio.
Come in questa prima domenica dell'anno, dopo aver aspettato, qualche giorno fa', la mezzanotte del 1 gennaio, con la speranza illusoria che l'anno che inizia sia buono, che sia fortunato, che sia chissà come.
Oggi riscopriamo che invece è il nostro cuore che deve cambiare, ancora una volta.
Se noi saremo buoni, ci sarà un anno buono, in ogni caso, in ogni avvenimento che accadrà.
Ecco allora che la seconda domenica dopo Natale, ci riporta di nuovo al Principio, quello vero, il prodigio che occupa ancora una volta il suo posto nel calendario del mondo e della nostra vita.
Oggi il vangelo, eco della liturgia del giorno di Natale, con parole che toccano sempre il cuore del Mistero, ci mette di nuovo di fronte al Verbo, con qualcosa che ha a che fare con l'Infinito, col Tutto, con la Luce, con la Vita.
Ancora una volta, c'è Dio. E ci siamo noi.
Dio e noi per sempre: una storia e destino legati, intrecciati stretti, confusi, mescolati.
Dio come qualcuno che non abita più lontano, in un altrove che ci è estraneo, che ci fa sentire a disagio, che ci mette paura, che talvolta vorremmo dimenticare. Ma come qualcuno che viene, che entra, che si rivela e diventa presenza visibile.
Anzi, ogni altra cosa diventa visibile proprio per la sua presenza e il buio della notte umana - che è la nostra condizione - è illuminato per sempre.
"Venne ad abitare in mezzo a noi". Pose la sua dimora..., non per qualche giorno, per qualche settimana, ma per sempre, per non lasciarci mai soli e disperati, per prenderci per mano, per farci compagnia, per darci tutto il suo amore "sino alla fine".
S. Agostino, nel ricordare quanto ci abbia amato il "Padre buono" al punto di non risparmiare il proprio Figlio , dice: "Avremmo potuto credere che il tuo Verbo fosse lontano dal contatto dell'uomo, e disperare di noi, se non si fosse fatto carne e non avesse abitato fra noi"
Di fronte al "Verbo che si fa carne" - di fronte all'avvenimento del Natale appunto - proprio questa nostra carne di uomo è una risposta, dove con "carne" si intende la nostra umanità fatta di debolezza, di fragilità, di sofferenza. Dio si fa carne nel senso che tutta la vita ormai, i pensieri e i desideri, le intenzioni e gli affetti e i gesti non possono più prescindere da Lui.
Ogni "povertà" umana è il luogo dell'Incarnazione: l'infanzia e il bisogno, la fame e il freddo, la fuga e l'esilio, la stanchezza e la malattia, l'ignoranza e la solitudine.
E, con esso, tutto l'interminabile elenco del dolore, della ricerca e del lavoro umano.
E poiché si tratta di "incarnazione" diciamo pure: il bambino, il malato, lo straniero, il disoccupato, l'ignorante, l'affamato, il nudo, il prossimo di tutte le porte accanto...
A noi ora resta che lasciarci illuminare gli occhi della mente per comprendere a quale speranza ci ha chiamati e gustare il tesoro di gloria della sua eredità: Perché si fa carne? Perché Tu, Verbo infinito, ti fai uomo limitato?
"Perché tu possa diventare Suo figlio e raggiungere Dio" ci potrebbe rispondere il Verbo.
Stiamo celebrando la nascita del Figlio nella natura umana, ma siamo invitati a riscoprire la bellezza di essere rinati noi in Lui, di essere figli adottivi.
Come sappiamo la motivazione (e la bellezza) di un'adozione non è quella che due persone debbano a tutti costi avere un figlio, ma quella che un orfano, a tutti i costi, possa aver modo di dire a qualcuno "Mamma", "Papà".
E’ così che Dio, a tutti i costi, a costo della vita del Figlio, dà a noi la gioia di dire a Lui: "Papà" e alla Chiesa: "Mamma".
Il prologo del vangelo di Giovanni è il canto di un cuore innamorato, di uno che Lo ha accolto, di uno che, all'ultima cena e sotto la croce e nel sepolcro vuoto ha sperimentato cosa significa entrare, attraverso il Figlio, nel seno del Padre.
Buon anno ancora a tutti, ma che sia un tempo che ricominci da ogni domenica, da ogni Incontro con l'unico che dà Luce alle nostre tenebre e Vita alla nostra vita.
il vostro don
06/01/2014
6 gennaio 2014 - Epifania del Signore
06/01/2014
6 gennaio 2014
Epifania del Signore
Is 60,1-6 / Sal 71 / Ef 3,2-3.5-6 / Mt 2,1-12
La festa dell'Epifania ci fa contemplare il mistero dell'incarnazione da un altro punto di vista, sotto un'altra angolatura. Il bambino nato a Betlemme non è solo il Figlio di Dio annunciato nel segreto del cuore a Maria e Giuseppe, non è solo il salvatore annunciato dagli angeli ai pastori e da loro adorato, ma è anche il Re di Israele, non accolto dal suo popolo, condannato a morte dal potere politico e riconosciuto come luce da tutti i popoli.
Questo vuole comunicarci l'evangelista Matteo con la famosa storia dei Magi d'oriente, in cui non è facile distinguere cosa è avvenuto storicamente dal messaggio che l'evangelista trasmette nella forma più efficace che è quella del racconto.
Egli non si dilunga sulla nascita di Gesù, ma ci presenta alcuni avvenimenti e personaggi direttamente legati a quell'avvenimento, perché sono essi che ci permettono di scoprire il carattere straordinario di quel bambino.
Entrano in scena dei "Magi", un nome generico che a quel tempo indicava i rappresentanti del sapere naturale e religioso dell'oriente. Ciò che fanno e che dicono ci permette di conoscerli più a fondo: si sono messi in viaggio con una domanda viva, nata dalla scoperta di una stella che - come era comune nel pensiero antico - collegavano con la nascita di qualche personaggio importante: dove è il re che è nato? Non si tratta di curiosità, vogliono andare ad adorarlo.
Arrivano a Gerusalemme, e chiedono alle autorità. Il re Erode e tutti i cittadini di Gerusalemme non sanno nulla dell'accaduto, e si spaventano quando sentono la notizia dai magi. La paura è il contrario dell'attesa, del desiderio di trovare qualcosa di nuovo. Per motivi dunque diversi anche Erode si pone la domanda su "dove" doveva nascere il Messia: lui, un pagano e capo politico per conto dei romani, riunisce e interroga le persone più importanti della religione ebraica.
La domanda trova finalmente una risposta da coloro che conoscono le Scritture: Betlemme, la città di Davide, è il luogo da dove deve uscire il pastore di Israele. Pur sapendo ciò, i capi religiosi non si mettono in movimento, a differenza dei magi, né sono sconvolti come lo era Erode: già all'inizio del vangelo essi rappresentano quel popolo che, pur avendo ricevuto le promesse di Dio espresse nella Scrittura, non ha saputo vederle realizzate in Gesù. La risposta della Scrittura mette invece in movimento Erode, che dà seguito al suo piano: chiama i magi di notte e li manda nel luogo indicato dal profeta, con un comando: tornare a riferirgli del bambino, per andare ad adorarlo. Per il potere politico Gesù è un potenziale nemico, come se ancora prima di cominciare a parlare egli ne denunciasse già la pretesa totalitaria.
Ed ecco che ritorna la stella, che guida i Magi alla meta del loro viaggio, riempiendoli di gioia. Le parole della Scrittura non servono tanto ai magi, uomini di altre religioni, quanto ai cristiani provenienti dal Giudaismo, per credere che Gesù adempie la profezia su Betlemme ed è veramente il messia. I magi invece arrivano al bambino seguendo la stella, cioè la guida divina (perché appare nel cielo, luogo simbolico della divinità). Questa guida è visibile solo a chi è disposto a riconoscere veramente in quel bambino un re.
La conclusione mostra a chi Dio fa conoscere suo Figlio: non basta sapere cosa dice la Scrittura sul Messia per credere in Gesù; né lo può incontrare chi lo sente come potenziale nemico. Solo i magi trovano Gesù e realizzano l'obiettivo del loro viaggio. Il sogno finale dei magi sta a confermare che chi guida le vicende attorno a questo bambino è Dio, e chi non è mosso dalla fede non lo può incontrare.
I Magi per un'altra via se ne tornarono alla loro casa: perché non si sono messi ad annunciare a tutti la loro scoperta? Essi sono solo un segnale messo all'inizio della storia di Gesù per dirci che con la sua vita, pur radicata nell'esperienza del popolo di Israele, egli annuncia e realizza un piano di salvezza che Dio offre a tutte le nazioni e ai popoli di tutte le culture: a chi si mette in cammino, seguendo una stella, e arriva fino al bambino per adorarlo.
Oggi viviamo un tempo in cui persone di culture e religioni diverse vivono fianco a fianco. Il messaggio di questa pagina di Vangelo illumina la testimonianza che i cristiani devono dare al loro Signore: come Maria e Giuseppe, devono essere disposti ad accogliere tutti coloro che vogliono conoscere Gesù e riconoscerlo come il Signore; non devono preoccuparsi di convincere né di trattenere chi viene, ma di manifestare con la vita il messaggio che Gesù ha annunciato e il cammino che ha aperto per la salvezza di ogni uomo.
il vostro don
12/01/2014
12 gennaio 2014 - Battesimo di Gesù
12/01/2014
12 gennaio 2014
Battesimo del Signore (Anno A)
Is 42,1-4.6-7 / Sal 28 / At 10,34-38 / Mt 3,13-17
Ognuno di noi è figlio prediletto di Dio
Gesù si mette in fila con i peccatori, lui che era il puro di Dio, in fila, come l'ultimo di tutti. Ed entra nel mondo dal punto più basso, perché nessuno lo senta lontano, nessuno si senta escluso. Gesù tra i peccatori appare fuori posto, come se fosse saltato l'ordine normale delle cose. Giovanni non capisce e si ritrae, ma Gesù gli risponde che proprio questo è l'ordine giusto: «lascia fare... perché conviene che adempiamo ogni giustizia». La nuova giustizia consiste in questo ribaltamento che annulla la distanza tra il Puro e gli impuri, tra Dio e l'uomo.
Ed ecco si aprirono i cieli e vide lo Spirito di Dio - che è la pienezza dell'amore, dell'energia, della vita di Dio - scendere come una colomba sopra di lui. E una voce diceva: «Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento». Questo fatto eccezionale, che avviene in un luogo qualsiasi e non nei recinti del sacro, lo strapparsi dei cieli con la dichiarazione d'amore di Dio e il volo ad ali aperte dello Spirito, è avvenuto anche per noi, ciò che il Padre dà a Gesù è dato ad ognuno.
Lo garantisce un'espressione emozionante di Gesù: Sappiano, Padre, che li hai amati come hai amato me . Dio ama noi come ha amato Gesù, con la stessa intensità, la stessa passione, lo stesso slancio. Dio preferisce ciascuno, ognuno è figlio suo prediletto. Per il Padre io come Gesù, la stessa dichiarazione d'amore, le stesse tre parole: Figlio, amato, mio compiacimento.
- Figlio è la prima parola. Un termine tecnico nel linguaggio biblico, dal significato preciso: «figlio» è colui che compie le stesse opere del Padre, che fa ciò che il padre fa, che gli assomiglia in tutto.
- Amato. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ad ogni risveglio il tuo nome per Dio è «amato». Immeritato, pregiudiziale, immotivato amore.
- Mio compiacimento. Termine inusuale ma bellissimo, che deriva dal verbo «piacere»: tu mi piaci, mi fai felice, è bello stare con te. Ma quale gioia, quale soddisfazione può venire al Padre da questa canna fragile sempre sul punto di rompersi che sono io, da questo stoppino fumigante? Eppure «la sua delizia è stare con i figli dell'uomo» , stare con me.
Al nostro Battesimo, esattamente come al Giordano, una voce ha ripetuto: Figlio, tu mi assomigli, io ti amo, tu mi dai gioia. Hai dentro il respiro del cielo, il soffio di Dio che ti avvolge, ti modella, trasforma pensieri, affetti, speranze, ti fa simile a me. Ad ogni mattino, anche i più oscuri, inizia la tua giornata ascoltando per prima la Voce del Padre: Figlio, amore mio, mia gioia. E sentirai il buio che si squarcia e l'amore che spiega le sue ali dentro di te.
19/01/2014
19 GENNAIO 2013 II DOMENICA DEL TEMPO ORD. - ANNO
19/01/2014
19 GENNAIO 2013
II DOMENICA DEL TEMPO ORD. - ANNO A –
(Gv 1,29-34)
Ecco l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo
Inizia il tempo ordinario. Dopo tante feste abbiamo bisogno di una ferialità tranquilla che ci ridia equilibrio e permetta alle buone abitudini di ritrovare il loro tempo! Non per pigrizia o imborghesimento, ma semplicemente perché è il quotidiano il nostro habitat, è nello scorrere dei giorni che sembrano tutti uguali che mette radici lo straordinario racchiuso dal dono dell'Incarnazione che il tempo liturgico appena concluso ci ha regalato e fatto contemplare. La liturgia ci aiuta e ci propone questa settimana i capitoli iniziali del vangelo di Marco. Dopo l'evento speciale del battesimo e il ritiro nel deserto, Gesù inizia il suo camminare per la Galilea. E lì si realizzano decine di incontri, fatti di dialoghi, le cui parole folgoranti scuotono il cuore e la mente di chi le ascolta: un movimento nuovo si riproduce per le strade e per le case di Galilea e dà un orientamento diverso al quotidiano di quella gente. In un'espressione brevissima si condensa un annunzio vivificante: il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo. Non dobbiamo correre qua o là: è qui, ora, la novità che desideriamo; basta accorgersene, rivolgersi a lei e darle fiducia. Una novità senza clamore, senza violenza ma penetrante, sicura, stabile.
Signore, dentro le cose che stiamo vivendo, che stanno accadendo fa' che ci accorgiamo della tua presenza che è la novità che ci salva.
Inizia un altro giorno. Gesù vuol viverlo in me. Lui non si è isolato.
Ha camminato in mezzo agli uomini. Con me cammina tra gli uomini d'oggi.
Benedetto questo nuovo giorno che è Natale per la terra, poiché in me Gesù vuole viverlo ancora.
Un nuovo giorno
26/01/2014
26 gennaio 2014 III Domenica del Tempo Ordinario (
26/01/2014
26 gennaio 2014
III Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Is 8,23-9,3 / Sal 26 / 1Cor 1,10-13.17 / Mt 4,12-23
Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini
Il Vangelo della Santa Messa ci suggerisce di riflettere sul tema della vocazione. La vocazione è una manifestazione dell'Amore infinito ed eterno di Dio, è un dono gratuito, che viene direttamente dal Cuore di Dio. La vocazione è essenzialmente una chiamata divina. Dio chiama e l'uomo deve rispondere. Qualora la chiamata di Dio rimanesse senza risposta la vita dell'uomo sarebbe una vita fallita e triste.
A cosa Dio chiama l'uomo? Dio, fin dall'eternità, per amore, ci ha chiamati, innanzitutto, alla vita naturale, a vivere da uomini, e continuamente ci chiama alla vita soprannaturale, a vivere da figli di Dio, da cristiani; ci chiama, cioè, a corrispondere a quel grado di santità che desidera da noi, con il suo aiuto e la nostra fattiva collaborazione.
La condizione per santificare la nostra vita è di viverla nello stato di vita (matrimonio, celibato, professione religiosa, sacerdozio), dove la Volontà di Dio ci chiama. È vero che i battezzati hanno un'origine e un destino comuni, ma è altrettanto vero che ognuno ha la sua missione da compiere.
San Matteo, nel Vangelo della Santa Messa, descrive la chiamata dei primi Discepoli di Gesù. Sono i primi a subire il suo fascino. Si tratta di alcuni pescatori della Galilea, in particolare i due fratelli Simone e Andrea e i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni.
Gesù Cristo, volendo scegliersi dei collaboratori, ha prediletto non i grandi della terra, non gli uomini di scienza e di prestigio, ma poveri ed ignoranti pescatori, semplici e sinceri.
Il Maestro divino invita loro a seguirlo: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini”. Egli l'invita non solo con la voce, ma con un'illuminazione interiore, mediante la quale comprendono la necessità di mettersi alla sua sequela, comprendono che è necessario lasciare tutto, famiglia e lavoro, per seguire Gesù.
L'Evangelista mette in evidenza proprio la prontezza e la generosità della loro risposta: “Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono”.
Gesù, invitando gli Apostoli a seguirlo, affida loro una grande missione: “Vi farò pescatori di uomini”. Quindi questi primi Discepoli da pescatori di pesci diventano pescatori di anime. Ad essi viene affidato il compito di diffondere la luce del Vangelo fino agli estremi confini della terra.
Ogni battezzato è chiamato a cooperare a questa sublime missione di evangelizzazione, ma non tutti nello stesso modo. Vi è una vocazione nativa, comune, ordinaria, essendo iscritta nella carne e nel sangue dell'uomo, la più adatta alle tendenze della vita umana. Vi è anche una vocazione che si può definire sacra, in quanto esige un intervento speciale di Dio, che conduce sulla strada della consacrazione a Dio, che conduce ad una vita protesa verso le più alte vette della santità. Questa è, appunto, la vocazione al sacerdozio, alla vita religiosa, ecc., la vocazione all'amore più grande. Anche la nostra risposta dovrebbe essere pronta e generosa come quella di questi primi Discepoli.
Anche noi dovremmo abbandonare le reti, ossia tutto quello che è terreno e che ci impedisce di percorrere la via della santità, la quale implica rinuncia, sacrificio, generosità.
Ci aiuti il Signore a cooperare generosamente al dono della vocazione, ad essere fedeli ad essa. Dalla nostra generosità e fedeltà dipende la salvezza di tanti nostri fratelli e sorelle!
02/02/2014
2 Febbraio 2014 - III Domenica del Tempo Ordinario
02/02/2014
2 Febbraio 2014
III Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Malachìa 3,1-4; Salmo 23; Ebrei 2, 14-18; Luca 2, 22-40
Gesù, la luce preparata per i popoli
Gesù Maria e Giuseppe portano Gesù al tempio per presentarlo al Signore, ma non fanno nemmeno in tempo a entrare che subito le braccia di un uomo e di una donna se lo contendono: Gesù non appartiene al tempio, egli appartiene all'uomo. È nostro, di tutti gli uomini e le donne assetati, di quelli che non smettono di cercare e sognare mai, come Simeone; di quelli che sanno vedere oltre, come Anna, e incantarsi davanti a un neonato, perché sentono Dio come futuro. Gesù non è accolto dai sacerdoti, ma da un anziano e un'anziana senza ruolo, due innamorati di Dio che hanno occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio. È la vecchiaia del mondo che accoglie fra le sue braccia l'eterna giovinezza di Dio.
Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia. Parole che lo Spirito ha conservato nella Bibbia perché io le conservassi nel cuore: tu non morirai senza aver visto il Signore. La tua vita non si spegnerà senza risposte, senza incontri, senza luce. Verrà anche per me il Signore, verrà come aiuto in ciò che fa soffrire, come forza di ciò che fa partire. Io non morirò senza aver visto l'offensiva di Dio, l'offensiva del bene, già in atto, di un Dio all'opera tra noi, lievito nel nostro pane.
Simeone aspettava la consolazione di Israele. Lui sapeva aspettare, come chi ha speranza. Come lui il cristiano è il contrario di chi non si aspetta più niente, ma crede tenacemente che qualcosa può accadere. Se aspetti, gli occhi si fanno attenti, penetranti, vigili e vedono: ho visto la luce preparata per i popoli. Ma quale luce emana da questo piccolo figlio della terra? La luce è Gesù, luce incarnata, carne illuminata, storia fecondata. La salvezza non è un opera particolare, ma Dio che è venuto, si lascia abbracciare dall'uomo, mescola la sua vita alle nostre. E a quella di tutti i popoli, di tutte le genti... la salvezza non è un fatto individuale, che riguarda solo la mia vita: o ci salveremo tutti insieme o periremo tutti.
Simeone dice poi tre parole immense a Maria, e che sono per noi: egli è qui come caduta e risurrezione, come segno di contraddizione. Cristo come caduta e contraddizione. Caduta dei nostri piccoli o grandi idoli, che fa cadere in rovina il nostro mondo di maschere e bugie, che contraddice la quieta mediocrità, il disamore e le idee false di Dio. Cristo come risurrezione: forza che mi ha fatto ripartire quando avevo il vuoto dentro e il nero davanti agli occhi. Risurrezione della nobiltà che è in ogni uomo, anche il più perduto e disperato. Caduta, risurrezione contraddizione. Tre parole che danno respiro alla vita, aprono brecce. Gesù ha il luminoso potere di far vedere che le cose sono abitate da un “oltre”.
09/02/2014
9 Febbraio 2014 - V Domenica del Tempo Ordinario (
09/02/2014
9 Febbraio 2014
V ° Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Il Signore chiama i discepoli sale della terra e luce del mondo; sono quasi le prime parole che rivolge loro. Questo mostra la potenza di Gesù: è lui il vero sale e la vera luce, ma li rende subito partecipi di tutto, anche della sua condizione di Figlio. Per questo il discepolo che subisce la persecuzione sa di Cristo, è come il sale. E all'esterno produce una luce che illumina il mondo e la stessa comunità dei credenti, la Chiesa.
Propriamente è Gesù il sale della terra e la luce del mondo. Gesù sa di Dio, ha il sapore di Dio, tutt'altro rispetto al sapore del mondo. Così come si contrappongono il profumo, la fragranza di vita e l'odore di morte. Anche il discepolo, per la partecipazione a Cristo Gesù, ha anche lui questo sapore e deve cercare di non essere insipido. Avere sale vuol dire avere questa esperienza di Dio. Ma il sapore si può perdere e anche il discepolo può diventare insignificante, senza senso.
La luce è Gesù, il Figlio che è "luce da luce", brilla sul lucerniere, che è la croce, e rischiara le tenebre. Una luce così intensa che fa sembrare tenebra la luce in cui viviamo. Perché Lui è la luce, noi battezzati in lui, veniamo illuminati a nostra volta e riflettiamo luce sugli altri. È come nell'astronomia: corpi opachi, come la luna, non brillano di luce propria ma riverberano la luce del sole.
Anche Mosè, dopo aver visto e parlato con il Signore, si dice che aveva un'espressione così luminosa che quasi non si riusciva a guardarlo; per cui gli israeliti lo pregavano di velarsi quando parlava con loro. E Mosè si toglieva il velo solo quando era nella tenda davanti al Signore.
Perdere il sapore è tragico; significa divenire stolti, idolatri. Si può parlare della luce senza che niente s'illumini, del fuoco senza che niente si riscaldi, del lievito senza che niente venga fermentato, del sale senza che niente acquisti sapore. Se invece siamo luce, fuoco, lievito e sale, rendiamo testimonianza poiché per farne esperienza gli altri devono entrare in comunione con noi e trovandoci in comunione con Dio lo conoscono e ne fanno essi stessi esperienza.
II RIFLESSIONE DOMENICALE
9 Febbraio 2014
V ° Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Sale, monte, luce
Gesù inizia la sua predicazione e lo fa coinvolgendo pescatori chiamati a diventare apostoli.
Quanta luce splende in queste parole! Anche noi, come Simeone domenica scorsa, possiamo stringere fra le braccia l’inaudito di Dio ed ammettere di avere incontrato la luce.
Flebile, che a volte sembra essere travolta dalle tenebre, ma sempre luce.
Luce che ci raggiunge attraverso l’obbedienza al cammino tracciato prima di noi, come fanno senza problemi i giovani Giuseppe e Maria.
Nella lettura continua del vangelo di Matteo, domenica scorsa sostituita appunto dalla festa della presentazione al tempio, la liturgia aveva proposto la difficile pagina delle beatitudini. E da questa domenica e per qualche settimana approfondiremo quella pagina facendola diventare carne e sangue.
Se non viviamo le beatitudini, dice il Maestro, siamo come del sale senza sapore, come una città costruita in fondo ad una valle, una lucerna nascosta sotto lo sgabello. Cioè niente. Peggio: inutili. Una fede che non dà sapore, che non indirizza, che non illumina, è morta e sepolta.
Sale
Il sale era talmente prezioso nell’antichità da rappresentare, per molte categorie fra cui i soldati, la paga per il proprio lavoro, il “salario”.
I rabbini dicevano che la Torah è il sale del mondo.
Non solo, dice, Gesù: anche i discepoli sono chiamati a diventare sale della terra. A diventare la nuova Legge di Dio che cammina per le strade, che si fa concretezza e scelta, fiducia e pazienza, abbandono e passione. Noi discepoli siamo chiamati ad essere come la Torah per il mondo d’oggi.
È prezioso, il sale, perché insaporisce il cibo.
Quanto è difficile mangiare un cibo insipido! E il sapore ha a che fare con la sapienza, dono di Dio. È sapiente chi mette sapore nella propria vita, e il sapore ci è donato dalla Parola vissuta e incarnata giorno per giorno.
Diamo sapore alle cose che facciamo, alle parole che usiamo (niente discorsi insipidi per favore!). Mettiamo sale in zucca ponendo sempre la Parola al centro dei nostri discorsi.
Il sale, poi, impedisce ai cibi di corrompersi, è un modo eccellente di conservare le carne, ad esempio. Impedisce la corruzione morale, il predomino del male e della parte oscura nel mondo odierno. Ancora oggi il gesto di gettare del sale dietro le spalle, secondo una antica superstizione popolare, tiene lontani gli spiriti avversi.
Il sale del vangelo impedisce alla nostra vita di corrompersi, di cedere, di perdere di sapore.
Non solo: nella Bibbia il sale viene usato per sigillare un patto, usato insieme al pane o da solo, manifestava l’inviolabilità di un’alleanza.
Noi cristiani siamo sale del mondo, chiamati a testimoniare a tutti gli uomini il perdurante amore di Dio nei nostri confronti.
Curioso il fatto che Gesù chieda ai suoi, sale della terra, di non diventare “insipidi”. I chimici ci rassicurano: il sale non può perdere il suo sapore. A meno di non mischiarlo con altre sostanze che lo sviliscono.
Se cediamo a compromessi, se lasciamo che la parola del vangelo venga mischiata col buon senso, le abitudini, le consuetudini nostre e attribuite a Dio, perdiamo la capacità di salare.
Monte
Anche in Palestina le città e i villaggi erano costruiti sulla cima delle colline: per proteggersi dai nemici, per dominare la situazione, per sfuggire alle alluvioni.
Siamo città costruite sul monte, punto di riferimento per il viaggiatore che cerca Dio, per chi cerca speranza. Certo, qualcuno dirà che nel passato la nostra fede, la nostra Chiesa era la più bella e ricca città sul monte, preziosa e luminosa, attirava tutte le persone.
Oggi questa lucentezza risente dell’opacità dei secoli e, tutto intorno, altre città imponenti e magnifiche, all’apparenza, dominano il paesaggio. Come accade a certe nostre chiese storiche in mezzo alle grandi città: prima il campanile dominava tutto il circondario, ora alti palazzi e grattacieli lo sovrastano.
Poco importa: siamo chiamati a mantenere viva la città di Dio, a non disabitarla. È tempo per cristiani forti, questo, non scherziamo.
Lucerna
Il capo famiglia, alla fine della giornata, prendeva una lucerna d’argilla riempita d’olio di oliva e, una volta accesa, la poneva in alto, su un lucerniere appeso al soffitto affinché la piccola fiammella illuminasse tutta la stanza. Noi cristiani, invece, spesso mettiamo la luce della fede sotto lo sgabello. Ci vergogniamo di essere discepoli o, se lo siamo, lo si vede solo durante la preghiera domenicale. Quanta poca luce cristiana vedo fra i cittadini, fra i commercianti, fra i politici… Un cristianesimo fatto di abitudine, che non incide sulla vita, che non cambia la storia!
Che pena! La vigorosa pagina del vangelo di oggi ci scuota, ci convinca, ci inorgoglisca. Siamo già insaporiti, siamo già costruiti sul monte, siamo già accesi e illuminati. Animo, amici, insaporite il mondo.
16/02/2014
16 Febbraio 2014 V I Domenica del Tempo
16/02/2014
16 Febbraio 2014
V I Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
(Sir 15,16-21; Salmo 118; Cor 2,6-10; Mt 5,17-37)
Gesù realizza quello che le Scritture dicevano di lui. Lo fa con la sua vita e la sua morte. Non svuota la Legge, ma la riempie fino alla sua più alta espressione. Gesù non è contro Mosè; anzi è lui il vero legislatore per gli uomini di tutti i tempi; Mosè era solo l'avanguardia.
Alla venuta del Messia, la Legge precedente mostra tutti i segni della sua insufficienza. Solo Gesù va fino in fondo con l'amore che non trascura neanche un dettaglio. Anche se cadranno cielo e terra, non cadrà la particella più piccola della Legge, finché non sia attuata nel Vangelo dell'amore.
La giustizia migliore di tutte, che supera di gran lunga quella degli scribi e dei farisei, è quella che Gesù ha concentrato in un principio dominante: l'amore di Dio e del prossimo. Da qui segue tutta la Legge e tutti i Profeti.
Gesù non propone un'altra legge, non contraddice quanto è stato già detto, ma lo spiega, lo approfondisce: l'uccisione fisica viene dall'ira, dal disprezzo, dall'uccisione della reciproca fraternità. L'ira e il disprezzo sono l'uccisione dell'altro nel proprio cuore. È interiore, ma prepara quella esteriore. Anche le guerre iniziano con campagne pubblicitarie che ingiuriano il nemico al punto da considerarlo meritevole di morte.
L'amore del prossimo è superiore anche alla preghiera. Senza pace con il fratello non c'è incontro con il Padre. E questo riguarda non solo chi ha offeso, ma anche chi è stato offeso: pure lui deve riconciliarsi col fratello. Non è questione di ragione o di torto; quando c'è qualcosa che divide due fratelli; ogni ostacolo deve essere abbassato per comunicare con Dio.
Il Signore si è fatto prossimo a noi più di quanto noi lo siamo a noi stessi. Ecco perché tutto il "parlare" della nostra vita è chiamato a essere semplicemente se stesso: perché noi e Lui siamo del tutto uniti. Non siamo noi a parlare, ma è Lui che parla in noi.
23/02/2014
23 Febbraio 2014 V II Domenica del Tempo Or
23/02/2014
23 Febbraio 2014
V II Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
( Lv 19,1-2.17-18 - Sal 102 - 1Cor 3,16-23 - Mt 5,38-48)
Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano
Il brano evangelico di oggi continua quello della domenica precedente, insegnando la perfezione nel precetto della carità. Prima di tutto, Gesù parla della cosiddetta "legge del taglione" che infliggeva al colpevole lo stesso danno arrecato agli altri. Questa legge era nota fin dall'antichità e fu accolta anche dagli ebrei. La legge del taglione, così severa e spietata, era comunque un grande miglioramento rispetto agli eccessi delle vendette personali un tempo tanto praticate
Gesù porta a perfezione il precetto della carità fraterna superando la legge del taglione e insegnando di "non opporsi al malvagio" e di "porgere l'altra guancia". Gesù introduce questo insegnamento nel solito modo, con le parole: “Io vi dico”, parole che esprimono molto bene la sua autorità divina. L'insegnamento di Gesù è molto importante e molto esigente.
Tuttavia le sue parole non devono essere prese alla lettera: il cristiano può e deve difendersi. La Chiesa ha sempre insegnato la legittimità di una difesa proporzionata all'offesa, soprattutto quando bisogna difendere i propri cari. Queste parole: "Non opporsi al malvagio", "porgere l'altra guancia", “lascia anche il mantello” devono essere prese nel senso che il cristiano non deve covare odio e rancore: anche quando è costretto a difendersi, egli deve amare i nemici e pregare per loro.
Gesù continua il suo insegnamento dicendo: “Dà a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle”. Se abbiamo la possibilità di fare del bene, non perdiamo questa occasione e non rimandiamo a domani quello che possiamo fare oggi! Chissà: un giorno potremo trovarci nella stessa situazione di bisogno e allora raccoglieremo ciò che avremo seminato.
Poco più avanti, Gesù dice: “Avete inteso che fu detto: "Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico"“. L'odio per il nemico non si trova nell'Antico Testamento. Esso, in qualche modo, si rifà ai brani biblici che imponevano agli ebrei una netta separazione dai pagani. Con queste parole, Gesù si riferisce a una mentalità molto diffusa presso il popolo d'Israele che si trova codificata nella regola della comunità di Qumran, una comunità che viveva presso il Mar Morto e che si prefiggeva di vivere integralmente la Legge Mosaica nell'attesa del venturo Messia. In questa regola si leggeva che "i figli della luce" devono odiare tutti "i figli delle tenebre".
Gesù infrange anche questa barriera e afferma: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”. E, come esempio di questo amore, il Signore indica il Padre Celeste che “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”. Così deve essere la nostra carità: deve beneficare tutti, amici e nemici. In questo consiste la perfezione, la santità. Infatti, a chiusura di questo brano evangelico, Gesù afferma solennemente: "Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro Celeste".
Per essere autenticamente cristiani, dobbiamo imitare la carità di Dio. Dobbiamo mirare decisamente a questa perfezione, ciò è volontà di Dio. La santità è dunque per tutti, essa non è riservata solo a pochi privilegiati. Il desiderio della santità deve essere al di sopra di tutto, dal momento che la santità è carità. Desiderare la santità significa pertanto voler amare sempre di più, Dio e il prossimo. È con la carità praticata che si cambia il mondo e, soprattutto, i cuori degli uomini.
Nella vita di san Francesco si racconta un episodio molto significativo. Vi erano dei briganti che ogni tanto venivano a chiedere al convento qualcosa da mangiare. Cosa fare: darglielo oppure no? I frati allora chiesero a san Francesco la soluzione. Il Santo risolse questo dubbio dicendo che, offrendo loro da mangiare, con il passare del tempo, essi si sarebbero convertiti. E così avvenne: tutti si convertirono e alcuni di loro chiesero di divenire frati.
Il sole della carità aveva illuminato quei briganti e li aveva convertiti. Facciamo risplendere questo sole anche nella nostra vita, in questo modo molti incontreranno Dio.
2/03/2014
2 Marzo 2014 ---- V III Domenica del Tempo Ordina
2/03/2014
2 Marzo 2014
V III Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Non potete servire Dio e la ricchezza
Il Vangelo di questa domenica ci insegna ad avere una fiducia illimitata nella Divina Provvidenza. Parlando alle folle, Gesù afferma solennemente: “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”.
I due padroni che si contendono l'uomo sono Dio e la ricchezza. La ricchezza seduce l'uomo per farne uno schiavo, Dio lo attira per fare di lui un figlio libero. La scelta dell'uomo è dunque tra un bene effimero e ingannevole e il Bene sommo e necessario, tra la schiavitù e la libertà dei figli di Dio.
Dopo l'iniziale affermazione, il discorso di Gesù si fa pressante, inesorabile, per fugare dall'uomo uno dei mali che è di tutti i tempi e che sembra caratterizzare in modo particolare il mondo in cui viviamo oggi. Questo male è la preoccupazione, l'ansia, l'assillo, l'affanno che invadono l'uomo di fronte al bisogno quotidiano e all'incertezza del futuro.
L'angosciosa preoccupazione per i beni della terra è contraria alla fede nell'amore premuroso e provvido del Padre Celeste.
Nella prima lettura, questo amore premuroso e provvidente di Dio è descritto come l'amore di una madre: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”. Tante volte potrebbe sopraggiungere la tentazione di considerarci abbandonati da Dio, di pensare che Egli non si prenda più cura di noi. Di fronte a questa tentazione dobbiamo reagire prontamente con la preghiera e con la meditazione della Parola di Dio.
Per descrivere la premura più che materna della Divina Provvidenza, Gesù si serve di paragoni molto belli desunti dal creato, paragoni che erano certamente molto familiari agli ascoltatori del Maestro che, per lo più, erano pastori e contadini. Egli parla dei gigli del campo e degli uccelli del cielo ed invita a considerare come il Padre Celeste si prende cura di loro: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro Celeste li nutre”. E, subito dopo, afferma: “Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro”.
Gesù, dunque, ci esorta a non preoccuparci: noi valiamo molto più degli uccelli del cielo e dei gigli del campo.
Se Dio ci ha dato il bene preziosissimo della vita, che costituisce il più, perché non dovrebbe o non potrebbe provvedere a ciò che serve al nostro sostentamento, che è il meno? Come fare per sperimentare questa Provvidenza? Gesù ce lo dice chiaramente: “Cercate anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.
Dobbiamo dunque mettere le esigenze di Dio al primo posto nella nostra vita. Se, invece, faremo come i pagani, e ci preoccuperemo per l'avvenire, e metteremo queste esigenze terrene al di sopra di tutto, allora non otterremo l'aiuto tanto necessario.
Questa fiducia illimitata nella Divina Provvidenza non dispensa l'uomo dall'impegno per le cose della terra. Le parole che abbiamo ascoltato non sono un invito alla pigrizia, alla spensieratezza e ad aspettare che la Provvidenza piova dal cielo senza alcuna nostra collaborazione. Il nostro impegno ci dovrà sempre essere e, insieme al nostro impegno, verrà l'aiuto divino. Con frase molto profonda, bisogna "occuparci" ma mai "preoccuparci". Questo, penso, sia l'insegnamento più profondo della pagina evangelica di oggi.
Non si deve sciupare il tempo presente con la paura del futuro.
Abituiamoci a vedere nelle piccole cose di ogni giorno un segno della sua bontà. Quanto più aumenterà la nostra fiducia, tanto più cresceranno gli aiuti di Dio.
Terminiamo questa omelia con una frase che Gesù diceva ad un'anima privilegiata, una frase che sintetizza molto bene il messaggio delle letture odierne: “Se Io sono buono per tutti, sono buonissimo verso coloro che hanno fiducia in me. Sai quali sono le anime che approfittano di più della mia bontà? Sono quelle che prima di tutto hanno fiducia. Le anime fiduciose rubano le mie grazie”.
2 Marzo 2014
V III Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Is 49,14-15 / Sal 61 / 1Cor 4,1-5 / Mt 6,24-34
In dieci versi ben sei volte c'è il verbo preoccuparsi. È la nostra condizione abituale, quotidiana. Nel senso che è l'abito che indossiamo sempre; nel senso che lo siamo tutti i giorni. E il Vangelo - Gesù - sta a dirci che non dobbiamo esserlo, non solo delle cose in elenco, ma di tutto. Anzi, la cosa più importante è proprio questa: non affannarsi, ma sentire e avere una relazione positiva con ogni cosa. È il dono della più grande libertà. Gesù porta esempi incantevoli traendoli dalla natura e ci spiega che sono l'orizzonte della relazione d'amore che Dio ha stabilito con l'umanità, con ciascuno di noi.
Non si tratta d'imitare gli uccelli che non seminano, non lavorano e non riempiono i granai. Bisogna capire che la preoccupazione nasce dall'amaro di un'esperienza ed è essa stessa una forma di solitudine. La relazione d'amore solleva dalla preoccupazione. E la fatica quotidiana è vista e vissuta come riposta all'amore di Dio e non come pena angosciante di chi sente solo sulle sue spalle pesi insostenibili. Dagli uccelli e dai gigli - nel linguaggio della natura - impariamo ad aver fiducia dell'amore di Dio.
C'è di più. Per quanto incantevoli, i gigli restano pur sempre erba, che oggi c'è e domani si brucia. Nell'ordine delle cose, noi veniamo molto prima di essi e degli uccelli, perché siamo figli. C'è davvero da preoccuparsi, invece, quando si perde questa consapevolezza e si vive come se Dio non ci fosse. Se lui non c'è, noi siamo poca cosa, orfani di senso e di speranza. L'ansia per il futuro ci divora; vivere, con senso di fede e di sapienza, il presente di ogni giorno porta pace al cuore. A sollevarci dal peso della pena quotidiana, la preghiera suggerita è sempre questa: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano" o - come ha recentemente suggerito Papa Francesco ai fidanzati e agli sposi - "Dacci oggi il nostro amore quotidiano".
Alla vigilia della Quaresima - con i grandi temi della preghiera, della misericordia e del digiuno - non può esserci immagine più serena degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Piccoli uccellini e umili fiori di campo, entrambi segni della povertà affidata all'amore di Dio e per questo trasformati in segni di bellezza e sapienza.
09/03/2014
9 Marzo 2014 1° Domenica di Quaresima (Anno A)
09/03/2014
9 Marzo 2014
1° Domenica di Quaresima (Anno A)
(Gen 2, 7-9; 3, 1-7; Sal 50; Rm 5, 12-19; Mt. 4, 1-11)
Il ricordo delle tentazioni di Gesù, dà senso alle tentazioni che abbiamo ogni giorno e le mostra come occasioni per rinnovare la fede e abbandonarci nelle mani del Padre. Chiedendo perdono per ogni volta che non ci siamo sentiti figli di Dio.
La tentazione di Gesù ha un nocciolo teologico. Viene subito dopo la rivelazione che Gesù è Figlio di Dio. Questa figliolanza è messa in discussione, tutto il resto - addirittura - ha un aspetto positivo: il pane, gli angeli, la religione.
L'iniziativa della tentazione sembra venire da Dio stesso. Come fu per Giovanni Battista: è lo Spirito a spingerlo nel deserto per essere tentato; ma è Satana che lo tenta. Questo significa che non è Dio a tentare, ma è Dio che decide di confrontarsi con il male e fin da subito a indirizzarsi e a disporsi alla passione. La signoria è sempre di Dio.
Alla fine è il demonio a lasciare Gesù. Nella prova Gesù non fugge; è il diavolo ad andarsene. Occorre coraggio, ma si può resistere e restare nella prova, sostenuti dallo stesso Spirito che ci ha condotto a questa battaglia.
Gesù ha vinto il demonio del potere, del denaro, del successo, ha vinto la tentazione di escludere Dio dalla vita umana, come gli uomini hanno creduto di poter fare sin dalle origini: questa vittoria è la nostra forza.
Il digiuno di quaranta giorni ricorda il cammino di quarant'anni fatto da Israele; la strada della libertà è lunga e l'uomo è tentato proprio fidandosi di se stesso. Preghiera e digiuno quaresimali vanno insieme alla riscoperta della Parola di Dio.
Queste sono le grandi linee della fede: il primato esigente della Parola di Dio; la consegna umile e filiale al Padre; lo smascheramento degli idoli e di ogni realtà che vuole imporsi come assoluto. L'adorazione è il grande segreto della libertà cristiana.
16/03/2014
16 Marzo 2014 II° Domenica di Quaresima (Anno A)
16/03/2014
16 Marzo 2014
II° Domenica di Quaresima (Anno A)
Questi è il Figlio mio, l'amato!
Il Vangelo della seconda domenica di Quaresima ci invita a riflettere sull'episodio della Trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor, un episodio avvenuto – narra l'Evangelista – sei giorni dopo il primo annuncio fatto da Gesù sulla sua prossima Passione. In quella circostanza, Gesù si manifesta chiaramente come il Messia sofferente, come Colui che è venuto al mondo a morire per gli uomini, a morire per la salvezza dell'umanità. Quella rivelazione non rispondeva alle comuni attese degli ebrei di un Messia glorioso, quindi di quelle degli Apostoli. In questi ultimi produsse sgomento e scoraggiamento. Allo scopo di incoraggiarli, il Maestro divino portò sul monte Tabor Pietro, Giacomo e Giovanni e lì si trasfigurò davanti a loro: «Il suo volto brillò come il sole – racconta il Vangelo – e le sue vesti divennero candide come la luce».
Il Signore mostrò ai tre Apostoli lo splendore della sua divinità. Dovette essere un'esperienza così beatificante da indurre Pietro, a nome degli altri, ad esprimere il desiderio di voler rimanere per sempre sul monte a contemplare Dio.
Questo episodio ci richiama il significato della Quaresima, tempo di preghiera e penitenza.
Gesù abbandona la pianura, la città, e sale sul monte Tabor per rimanervi nella solitudine, in preghiera. Il monte nella Sacra Scrittura (come il monte Sinai, il monte Carmelo) è il luogo della presenza straordinaria di Dio.
La salita al monte Tabor ci rivela la necessità della penitenza, il distacco dalle cose materiali per poter pregare: incontrare e conoscere Dio.
Dobbiamo purtroppo rilevare la difficoltà a pregare da parte di tanti uomini. Questo accade soprattutto perché risulta difficile staccare il cuore da tanti interessi materiali, da tante passioni terrene, da tante occupazioni volute da noi. Ed allora diventa difficile anche entrare in chiesa, trovare un po' di tempo per la preghiera.
Pensiamo a quanti perdono la Santa Messa domenicale per gli avvenimenti sportivi (partita di calcio, ad esempio). Per una passione si vendono l'anima al diavolo! Qualsiasi sacrificio per il calcio! Non riescono a staccarsi. Il cuore è attaccato agli interessi materiali.
Ma anche se si trova il tempo per andare alla Messa, molto spesso, purtroppo, si riduce solo ad una presenza fisica, come quella dei banchi e dei muri. Questo per togliersi lo scrupolo di non aver perso la Messa. Ma la mente, il cuore dove stanno, dove vagano?
Ecco il monte Tabor: bisogna staccarsi dal piano, arrampicarsi, fare lo sforzo del distacco per potersi incontrare con Dio e avere i veri frutti della preghiera: l'incontro e la manifestazione di Dio, la conoscenza sempre più profonda di Dio.
Fratelli e sorelle, una volta che siamo riusciti a salire e a rimanere sul monte, una volta che ci mettiamo a pregare, una volta che gustiamo la preghiera, può succedere anche a noi ciò che è accaduto per l'Apostolo Pietro: Signore restiamo sempre qui! È bello stare con te! Non vogliamo più lasciarti!
A conclusione di questa nostra riflessione domandiamoci: che cosa abbiamo fatto noi, intanto, in questo primo scorcio di Quaresima? Che cosa abbiamo fatto per aumentare la nostra preghiera? Possiamo già dire che in questo periodo quaresimale stiamo pregando di più? Abbiamo già fatto qualche sforzo, sacrificio proprio per facilitare il movimento del nostro spirito nell'innalzarsi verso Dio (Santa Messa quotidiana, un Rosario in più, ecc.)?
Proponiamoci dunque di pregare di più e meglio, ossia di pregare con sacrificio, pregare rinunciando a tutte le occasioni di distrazione (non riempire la mente unicamente di fatti di cronaca o di notizie sportive o altro che non ci eleva e che ci degrada addirittura, evitare chiacchiere inutili, perdite di tempo, ecc.). Solo così la nostra preghiera sarà più efficace e ci attirerà grazia sovrabbondante dal Signor
23/03/2014
23 Marzo 2014 III° Domenica di Quaresima (Anno A)
23/03/2014
23 Marzo 2014
III° Domenica di Quaresima (Anno A)
Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato
Il brano evangelico della terza Domenica di Quaresima ci presenta l'episodio di Gesù che incontra una donna samaritana al pozzo di Giacobbe della città samaritana di Sicar. L'episodio è molto significativo per due motivi. Prima di tutto perché si tratta di una città samaritana; e, subito dopo, per il fatto che Gesù parla ad una donna. La Samaria era una regione posta tra la Giudea e la Galilea. Essa era il risultato di una mescolanza di diverse popolazioni. Nel 721 a.C., infatti, gli assiri avevano deportato il meglio della popolazione samaritana, sostituendola con coloni babilonesi ed aramei che portarono con sé i loro culti pagani. Col tempo ne risultò una popolazione mista, sia di razza che di religione, al punto che i giudei non vollero mai considerare i samaritani come fratelli di sangue e di fede. Questo episodio ci insegna che Gesù è venuto per la salvezza di tutti e che il Vangelo deve essere predicato fino agli estremi confini della terra.
Gesù parla ad una donna. Questo stupì non poco i suoi Discepoli. Secondo la mentalità degli ebrei dell'epoca, un uomo non doveva perdere il suo tempo a parlare con una donna della Legge mosaica. Il fatto che Gesù si fermi a parlare con la samaritana al pozzo di Sicar ci insegna la pari dignità che vi è tra l'uomo e la donna.
All'inizio del suo ministero pubblico, andando dalla Giudea verso la Galilea, Gesù prese la via che, attraverso la montagna, passa per la Samaria. Gesù si fermò nei pressi di un pozzo e lì vide una donna che andava ad attingere dell'acqua. Assetato per il lungo cammino, il Maestro divino domanda un po' da bere a quella donna. A nessuno si poteva negare un bicchiere d'acqua; ma, per la parlata di Gesù, quella donna si accorse subito che colui che gli domandava da bere era un ebreo e non un samaritano. Ella si meravigliò che un ebreo si degnasse di fare una simile domanda. Iniziò allora un dialogo.
In cambio di quella poca acqua necessaria per dissetarsi, Gesù promette "l'acqua viva". L'acqua viva è l'acqua di sorgente, l'acqua che zampilla, a differenza di quella di pozzo che è ferma. L'acqua viva simboleggia molto bene la grazia che scaturisce dal Cuore trafitto di Gesù. Di quest'acqua ha parlato la prima lettura di oggi; Dio disse a Mosè: “Tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà”. Quella roccia simboleggiava Cristo Crocifisso, dal cui Costato trafitto uscì sangue e acqua, simbolo di grazia e di salvezza. Di quest'acqua ha parlato anche la seconda lettura di oggi, quando dice che “l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.
L'acqua è simbolo di grazia e purificazione, ed è importante notare come Gesù parlò di quest'acqua viva e parlò anche della situazione di peccato nella quale si trovava la donna samaritana, la quale conviveva con un uomo che non era suo marito. Un po' per volta, Gesù volle portare quella donna alla conversione, e volle farle comprendere che ella aveva bisogno di una profonda purificazione. La donna si convertì al punto che corse nel villaggio per portare tutti a Gesù. In più occasioni Gesù aveva presentato i samaritani, a differenza dei farisei, come i più sensibili alla sua predicazione. Pensiamo ad esempio alla bella parabola del Buon Samaritano: essa doveva risuonare come un severo rimprovero per i maestri della Legge.
Come quella donna, anche noi abbiamo avuto bisogno della grazia purificatrice. Questa grazia l'abbiamo ricevuta nel giorno del nostro Battesimo, con il quale ci è stato tolto il peccato originale. Il Battesimo si riceve una sola volta nella vita, mentre noi pecchiamo ogni giorno, e ogni giorno abbiamo bisogno di perdono e purificazione.
Dopo il Battesimo, la grazia del perdono e della purificazione ci è offerta dal sacramento della Confessione. Questo Sacramento si può ricevere molte volte. La Chiesa ci fa obbligo di riceverlo perlomeno una volta all'anno. Si capisce però che ci è fortemente raccomandato di confessare i nostri peccati molto più spesso, ogni mese, o anche ogni settimana se ci è possibile. Facendo così, l'acqua della grazia ci purificherà continuamente e la nostra anima sarà più bianca della neve.
30/03/2014
30 Marzo 2014 IV° Domenica di Quaresima “L
30/03/2014
06/04/2014
6 aprile 2014 V Domenica di Quaresima (Anno A)
06/04/2014
6 aprile 2014
V Domenica di Quaresima (Anno A)
Ez 37,12-14 / Sal 129 / Rm 8,8-11 / Gv 11,1-45
Lazzaro è malato e muore; attorno a Gesù tanti malati. La malattia è la condizione di tutti gli uomini e il Signore per ognuno ha grande misericordia. Anche il gesto di Maria, che unge il Signore e asciuga i suoi piedi con i capelli, insieme al pianto della peccatrice ai piedi di Gesù, parlano di tenerezza per la misericordia che Dio riserva ai peccatori, come nell'episodio dell'adultera perdonata. La gloria del Figlio di Dio è la sua misericordia per l'uomo malato e peccatore.
La malattia non è un fatto che sbuca all'improvviso, ma un promemoria tipico dell'uomo, un dato della sua condizione. C'era un malato, a Betania. Il fatto di Lazzaro è la vicenda di un malato. La sorella, Maria, descritta dal suo gesto ("quella che cosparse di profumo il Signore"), in qualche modo condiziona la vicenda familiare: Lazzaro è malato, ma è il fratello di Maria, è anche l'amico amato da Gesù. Prima ancora della guarigione, sono in campo i sentimenti, la predilezione, la misericordia, l'amore. C'è legame profondo tra Gesù e l'uomo malato, come è stato per l'elezione d'Israele e tutto il suo cammino verso il Messia.
È Gesù ad annunciare e spiegare il senso e la direzione della malattia: non è "per" e "verso" la morte, ma "per" e "verso" la gloria di Dio. La morte è tappa inevitabile, ma è la gloria il fine nuovo e inaspettato che la malattia dell'uomo riceve da Gesù.
Gesù amava: questa è la prima e la più importante parola del Vangelo. Gesù amava Marta, Maria e Lazzaro al punto di decidere di andare in Giudea, dove i Giudei cercavano di ucciderlo. Il suo amore di Gesù è misurato sul dono della vita. L'amore trasforma tutto, persino la morte in un sonno, dal quale si può essere risvegliati. Propriamente l'amore è solo di Dio. È il Suo Nome: "Dio è amore". L'amore contiene il segreto di Dio e della nostra vita. Ed è anche il segreto della potenza messa in campo nel miracolo della risurrezione di Lazzaro, che non è un atto di magia, ma è il segno di quanto Gesù lo ami.
13/04/2014
13 aprile 2014 Domenica delle Palme (Anno A)
13/04/2014
13 aprile 2014
Domenica delle Palme (Anno A)
Is 50,4-7 / Sal 21 / Fil 2,6-11 / Mt 26,14-27,66
La passione di Gesù è un dramma umano. La storia della passione è magistrale, una sceneggiatura di arte sopraffina, che tiene attaccati al racconto fino al suo epilogo. Da una parte Gesù che porta con sé i vessilli della giustizia e dell'amore, della verità e della coerenza. Dall'altra quelli che, per motivi diversi, lo tradiscono e lo calpestano. Da una parte Pilato che lo consegna al popolo che, aizzato dai sacerdoti, chiede la morte di Gesù. Il prefetto della Giudea non è abbastanza autorevole per usare la politica nel fare giustizia e cade vittima di chi lo pressa: i sacerdoti infatti vogliono usare la sua facoltà di imporre la pena capitale. Ponzio Pilato è anche schiavo delle sue ambizioni perché l'incarico in Palestina doveva essere per lui solo il primo gradino di una brillante carriera, che invece sarebbe finita lì se non si fosse dimostrato all'altezza. Lo consegnano anche i sacerdoti, coloro che detengono il potere religioso e non sono in grado di accogliere il culto in "spirito e verità" così come Gesù lo aveva presentato tre domeniche fa alla Samaritana. Il sabato fatto per l'uomo, la possibilità di ricostruire il tempio in soli tre giorni, il farsi Figlio di Dio, sono dichiarazioni di Gesù che hanno messo molto in difficoltà il potere religioso: i sacerdoti si sentono in pericolo e non riescono a cogliere la buona notizia di Gesù. Infine la consegna più tragica, quella degli amici, in primo luogo di Giuda, poi di Pietro e in fine di tutti gli apostoli, incapaci di vegliare nel Getsemani e assenti sotto la croce.
La passione di Gesù è un dramma teologico. Infatti è il culmine della rivelazione, l'affermazione definitiva della tesi fondamentale della predicazione di Gesù: il messia deve essere anche il servo sofferente di JHWH. Queste due figure non erano state messe insieme dai contemporanei perché in effetti sono opposte, difficilmente conciliabili. Paolo dice addirittura che questo fatto è «stoltezza per pagani e scandalo per i giudei», un fatto incomprensibile a partire dall'assoluto di Dio che, per il popolo ebraico, non si può nemmeno tentare di pronunciare o raffigurare.
In fine un dramma sociale. La folla è il luogo dove svaniscono tutte le insicurezze personali, il contesto in cui associandosi alla maggioranza si diventa onnipotenti. Così la stessa folla che osanna Gesù che entra a Gerusalemme diventa capace, nell'arco di poco tempo, di voltare faccia e di scegliere Barabba al posto suo. Nel mezzo della folla tutti sembrano convinti di esercitare la loro libertà e invece cadono vittima di chi li vuole manovrare, perdendo per strada la capacità di distinguere la verità. Forse è proprio per questo che la vera fede non sarà mai un fenomeno di massa in quanto richiede capacità di discernimento e disponibilità a rischiare personalmente.
Nel racconto della passione si trovano dunque diversi punti di tensione, vengono al pettine tanti nodi emersi lungo il cammino della predicazione di Gesù. Però, di fronte alle difficoltà che emergono, Gesù non si tira indietro. Non ascolta i discepoli che nel vangelo di domenica scorsa cercano di distoglierlo dicendo: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Piuttosto tira dritto rimanendo fermo a quella decisione presa all'inizio del viaggio verso Gerusalemme così come la descrive Luca in modo efficace: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme». Nelle pieghe della passione si trova rivelata, in modo supremo, la misericordia di Dio. Gesù segue il suo programma, ma non è solo una questione di coerenza, non è solo una questione morale, perché, nell'andare fino in fondo alla sua passione, Gesù vive l'amore che, nella maniera più assoluta, non chiede nulla in cambio: questo è l'amore di Dio espresso nei gesti dell'uomo Gesù. È la stessa misericordia della risurrezione, quella della compassione del Padre che non abbandona il Figlio nella tomba. L'amore della risurrezione è glorioso, ma nessuno lo ha mai visto, ne conosciamo gli effetti (i discepoli incontreranno Gesù già risorto), mentre l'amore espresso nella passione rimane visibile per sempre nella storia ed è il punto essenziale attraverso il quale conoscere Gesù e la Trinità che ci ha rivelato.
19/04/2014
20 aprile 2014 Domenica di Pasqua - Risurrezione
19/04/2014
20 aprile 2014
Domenica di Pasqua
- Risurrezione del Signore (Anno A)
At 10,34a.37-43 / Sal 117 / Col 3,1-4 / Gv 20,1-9
20 aprile 2014
Domenica di Pasqua
- Risurrezione del Signore (Anno A)
At 10,34a.37-43 / Sal 117 / Col 3,1-4 / Gv 20,1-9
27/04/2014
27 aprile 2014 - II Domenica di Pasqua (Anno
27/04/2014
27 aprile 2014
II Domenica di Pasqua (Anno A)
At 2,42-47 / Sal 117 / 1Pt 1,3-9 / Gv 20,19-31
Beati noi
È risorto.
Abbiamo lungamente atteso la notizia passata da bocca a orecchio, ci siamo preparati in questi quaranta giorni. Lo abbiamo cantato durante la notte pasquale e ripetuto durante gli otto giorni che seguono.
È risorto!
Lo credo, lo credo con ogni mia fibra.
Credo che Gesù sia vivo, accessibile, incontrabile. Credo che egli sia raggiungibile e che abiti nei mille segni che ci ha lascito.
Non come sbiadito ricordo ma come misteriosa (misterica) presenza.
Eppure: come vorrei poterlo vedere! E conoscere! E abbracciare!
Così le prime comunità cristiane, morti gli apostoli, desideravano in cuor loro.
È allora che Giovanni l'evangelista ha deciso di raccontare la storia di uno degli apostoli, Tommaso.
Beato non perché ha visto ciò che noi non vediamo.
Ma perché ha creduto senza vedere.
Esattamente come accade a noi.
Ferite
Gesù, la sera di Pasqua, appare ai suoi.
Manca Tommaso.
Quando torna, i suoi amici gli danno la notizia, confusi e stupiti, raggianti e pieni di entusiasmo.
È gelida la risposta di Tommaso.
No, non crede.
Non crede a loro. Loro che dicono che Gesù è risorto, dopo essere fuggiti come conigli, senza pudore. Non crede, Tommaso, alla Chiesa fatta da insopportabili uomini fragili che, spesso, nemmeno sanno riconoscere la propria fragilità. Non crede ma resta, e fa bene.
Non fugge la compagnia della Chiesa, non si sente migliore. Rassegnato, masticato dal dolore, segnato dal sogno infranto, ancora resta. Tenace.
Torna Gesù, apposta per lui.
So che hai molto sofferto, Tommaso. Anch'io, guarda qui.
Gli mostra le mani, il risorto, trafitte dai chiodi.
Ora cede, Tommaso, il grande credente. Si getta in ginocchio, piange, come un bambino che ritrova i propri genitori. Piange e ride e, primo, professa la fede che sarà di tutti: Gesù è Signore e Dio.
Può il dolore avvicinarci a Dio?
Sì, se scopriamo che Dio lo condivide senza riserva.
Il risorto, ormai, lo riconosciamo solo attraverso dei segni: le bende, la voce, il pane spezzato, il segno della pesca. Ma anche le ferite del risorto, la partecipazione al dolore di Dio diventano segno.
Fede
Gioca con noi l'evangelista.
È un crescendo di titoli rivolti a Gesù, il suo vangelo. Come una piccola traccia fatta di briciole che ci conducono alla pienezza della verità.
I primi due discepoli lo hanno chiamato rabbì, poco dopo Andrea dice a Simone di avere trovato il messia, Natanaele osa chiamarlo Figlio di Dio, i samaritani lo proclamano salvatore del mondo e la gente lo acclama come un profeta (Gv 6,14). Per il cieco guarito egli è il Signore e Pilato gli attribuisce il titolo di re dei giudei. Ma è Tommaso ad avere l'ultima parola proclamandolo mio Signore e mio Dio, un'espressione che la Bibbia attribuisce solo a Jahwé .
L'incredulo, in realtà, si dimostra il più credente di tutti perché crede anche senza avere visto.
Nessun vantaggio per chi c'era, dice Giovanni, anche noi, come gli apostoli, possiamo fare esperienza totale di Dio.
Giovanni conclude il suo scritto dicendo che l'esperienza di fede nel risorto è comune a molti.
Molti segni sono successi e molti ne succederanno, e vangeli possono essere scritti da ognuno di noi, ogni volta che facciamo esperienza del risorto nei segni della sua presenza, l'eucarestia anzitutto.
E la misericordia, la compassione di Cristo diventano il grande segno dell'amore di Dio verso di noi. E la misericordia che noi abbiamo verso gli altri diventano segno dell'amore di Dio per gli uomini.
E ogni vita diventa sacramento.
Santi
Come quella di Papa Giovanni e di Papa Giovanni Paolo. Due giganti nella fede, diversi, vissuti in epoche diverse, ma entrambi travolti dalla compassione e testimoni fedeli del vangelo.
Giovanni con la sua bontà, sacramento di vicinanza rimasto impresso nel cuore di molti.
Giovanni Paolo con la sua energia e con la sua impressionante tenacia durante la malattia.
Vite divenute segni.
No, non abbiamo bisogno di vedere e di toccare per credere.
Cristo risorto ci raggiunge e ci tocca attraverso la delicatezza dei fratelli che ci pone accanto.
Animo, fratelli scoraggiati, la misericordia ci salva.
04/05/2014
4 maggio 2014 - III Domenica di Pasqua (Anno A)
04/05/2014
4 maggio 2014
III Domenica di Pasqua (Anno A)
At 2,14.22-33 / Sal 15 / 1Pt 1,17-21 / Lc 24,13-35
Alla fine conta che il Signore resti con noi, come hanno chiesto i due di Emmaus, perché si fa sera e scende su noi il timore. In mezzo al dialogo concitato dei due, entra l'ospite inatteso, Gesù. Prima non lo si riconosce; dopo è lui che spiega e dice che siamo tardi a capire. Il loro è un racconto triste della storia di Gesù; parlano solo di una tomba vuota come hanno loro detto le donne.
I discepoli di Emmaus annunciano il fallimento di Cristo; narrando la loro frustrazione, essi annunciano un morto e la perdita di ogni speranza. In questo modo essi tengono chiusa nel sepolcro la Chiesa di sempre, annunciatori e destinatari.
Eppure il Signore cammina con loro, come fu con Mosè nell'Esodo. Anche allora, tante volte, camminavano insieme e Dio non fu riconosciuto dal suo popolo. Anche la direzione del viaggio è opposta: Gesù andava verso Gerusalemme, i due se ne allontanano delusi e senza speranza. Solo quando lo riconoscono, cambiano direzione di viaggio, senso della vita. Ed è proprio il forestiero in Gerusalemme a illuminare la strada e a scaldare i cuori.
La Scrittura illumina e scalda solo alla luce e al calore della persona di Gesù, crocifisso e risorto. Ora non si può fare a meno di Lui; solo Lui può dare speranza alla nostra storia: "Resta con noi perché si fa sera". Tutto si compie allo spezzare del pane, che è il modo nuovo della sua presenza, più a fondo degli occhi e degli orecchi.
L'atteggiamento dei discepoli di Emmaus tende, purtroppo, a diffondersi anche tra noi, quando ci allontaniamo "dalla Gerusalemme del Crocifisso e del Risorto, non credendo più nella potenza e nella presenza viva del Signore. Il problema del male, del dolore e della sofferenza, il problema dell'ingiustizia e della sopraffazione, la paura degli altri, degli estranei e dei lontani che giungono nelle nostre terre e sembrano attentare a ciò che noi siamo, portano i cristiani di oggi a dire con tristezza: noi speravamo che il Signore ci liberasse dal male, dal dolore, dalla sofferenza, dalla paura, dall'ingiustizia. È necessario, allora, sedersi a tavola con il Signore, diventare suoi commensali, affinché la sua presenza umile nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue ci restituisca lo sguardo della fede, per guardare tutto e tutti con gli occhi di Dio, nella luce del suo amore".
Se Gesù sparisce, il pane resta. L'Eucaristia è il compimento della promessa di Gesù di essere con noi fino alla fine del tempo.
11/05/2014
11 maggio 2014 - IV Domenica di Pasqua (Anno A)
11/05/2014
11 maggio 2014
IV Domenica di Pasqua (Anno A)
At 2,14.36-41 / Sal 22 / 1Pt 2,20-25 / Gv 10,1-10
Ascoltare e seguire il Buon Pastore
Il vangelo ci presenta una delle immagini più belle che, sin dai primi secoli della Chiesa, hanno raffigurato il Signore Gesù: quella del Buon Pastore. Il testo ci descrive i tratti profondi del rapporto tra Cristo Pastore e il suo gregge, un rapporto talmente stretto che nessuno potrà mai rapire le pecore dalla sua mano. Esse sono unite a Lui da un vincolo d'amore e di reciproca conoscenza, che garantisce loro il dono immenso della vita eterna. Nello stesso tempo, l'atteggiamento del gregge verso il Buon Pastore, Cristo, è presentato con due verbi specifici: ascoltare e seguire. Questi termini designano le caratteristiche fondamentali di coloro che cercano di seguire il Signore. Innanzitutto l'ascolto della sua Parola, dal quale nasce e si alimenta la fede. Chi è attento alla voce del Signore è in grado di valutare nella propria coscienza le giuste decisioni per agire secondo Dio. Dall'ascolto deriva, quindi, il seguire Gesù: si agisce da discepoli dopo a ver ascoltato e accolto interiormente gli insegnamenti del Maestro, per viverli quotidianamente.
In questa domenica viene spontaneo ricordare a Dio i Pastori della Chiesa, e coloro che si stanno formando per diventare Pastori. Una speciale preghiera per il papa, i vescovi, i parroci, per tutti coloro che hanno responsabilità nella guida del gregge di Cristo, affinché siano fedeli e saggi nel compiere il loro ministero. In particolare intendiamo pregare per le vocazioni al sacerdozio in questa Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, affinché non manchino mai validi operai nella messe del Signore. Anche in questo tempo, nel quale la voce del Signore rischia di essere sommersa in mezzo a tante altre voci, ogni comunità ecclesiale è chiamata a promuovere e curare le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Gli uomini infatti hanno sempre bisogno di Dio, anche nel nostro mondo tecnologico, e ci sarà sempre bisogno di Pastori che annunciano la sua Parola e fanno incontrare il Signore nei Sacramenti.
Ci sono di aiuto le parole semplici, concrete e profonde di papa Francesco: "Se io mi sento attratto da Gesù, se la sua voce riscalda il mio cuore, è grazie a Dio Padre, che ha messo dentro di me il desiderio dell'amore, della verità, della vita, della bellezza... e Gesù è tutto questo in pienezza! Questo ci aiuta a comprendere il mistero della vocazione, specialmente delle chiamate ad una speciale consacrazione. A volte Gesù ci chiama, ci invita a seguirlo, ma forse succede che non ci rendiamo conto che è Lui, proprio come è capitato al giovane Samuele. Ci sono molti giovani: vorrei chiedervi: qualche volta avete sentito la voce del Signore che attraverso un desiderio, un'inquietudine, vi invitava a seguirlo più da vicino? L'avete sentito? Avete avuto voglia di essere apostoli di Gesù? La giovinezza bisogna metterla in gioco per i grandi ideali. Pensate questo voi? Siete d'accordo? Domanda a Gesù che cosa vuole da te e sii coraggioso! Sii coraggiosa! Domandaglielo! Dietro e prima di ogni vocazione al sacerdozio o alla vita consacrata, c'è sempre la preghiera forte e intensa di qualcuno: di una nonna, di un nonno, di una madre, di un padre, di una comunità... Ecco perché Gesù ha detto: “Pregate il signore della messe - cioè Dio Padre - perché mandi operai nella sua messe!”. Le vocazioni nascono nella preghiera e dalla preghiera; e solo nella preghiera possono perseverare e portare frutto. Mi piace sottolinearlo oggi, che è la "Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni". E invochiamo l'intercessione di Maria che è la Donna del "sì". Maria ha detto "sì", tutta la vita! Maria, nostra Madre, ci aiuti a conoscere sempre meglio la voce di Gesù e a seguirla, per camminare nella via della vita!"
18/05/2014
18 maggio 2014 - V Domenica di Pasqua (Anno A)
18/05/2014
18 maggio 2014
V Domenica di Pasqua (Anno A)
At 6,1-7 / Sal 32 / 1Pt 2,4-9 / Gv 14,1-12
Ho come l’impressione che non sia facile capire Dio, capire le cose di Dio, capire i misteri di Dio, soprattutto, capire la volontà di Dio.
La scorsa settimana, una persona conosciuta occasionalmente, sapendo che ero sacerdote, mi ha chiesto: “Come faccio a capire cosa vuole Dio da me? Tutti abbiamo una strada da percorrere, un destino segnato per noi da sempre, ma come facciamo a sapere quale sia, soprattutto dopo che si son prese parecchie batoste? Qual è la strada da percorrere nella nostra vita, per essere sicuri di fare la volontà di Dio?”
Ho abbozzato qualche risposta, non certo generica e nemmeno “di maniera”, ma ho capito che il mio interlocutore non era pienamente soddisfatto della mia spiegazione; e nemmeno io lo ero, a dire la verità. Ho cercato di parlargli con totale sincerità e verità, e insieme a lui di intravedere cosa fosse meglio per la sua vita, quale fosse la via giusta da percorrere: ma forse non sono stato soddisfacente. Un po’, mi sono rammaricato; poi però, leggendo il brano di Vangelo di questa domenica, mentre pensavo alla riflessione da proporre, mi sono consolato – almeno parzialmente – ascoltando la domanda di Tommaso a Gesù: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?”.
Tommaso è il più contemporaneo tra gli apostoli, con tutte le sue domande esistenziali degne del miglior filosofo del sospetto; e credo che ognuno di noi si ritrovi in lui e nella sua domanda di senso, preceduta innanzitutto da un’affermazione, “Signore, non sappiamo dove vai”. È vero: dove vada il Signore, nessuno di noi lo sa. Dove siano diretti i suoi passi, nemmeno lo immaginiamo. Dove portino le sue strade…non ci è dato di saperlo. Di conseguenza, non sappiamo proprio come comportarci: “Come possiamo conoscere la via?”.
Caro Dio, se non sappiamo quali sono le tue intenzioni, qual è la tua volontà…come possiamo sapere come ci dobbiamo comportare di conseguenza? Come facciamo a sapere cosa dobbiamo fare per camminare nelle tue vie? E con Dio, spesso è così: non riusciamo proprio a capire la sua volontà, per cui ci è difficile comportarci di conseguenza. Se lui almeno fosse chiaro e ci dicesse dove ci vuole condurre, allora ci attrezziamo e lo seguiamo, gli andiamo dietro! Macché…è come andare abitualmente in montagna con una guida a cui chiedi “Dove andiamo?”, e lui ti risponde “Andiamo a fare un giro”! Una volta può anche starci, forse pure la seconda. Poi, però, non resistiamo più, e nell’incertezza gli rispondiamo: “Senti, vacci da solo, a fare un giro!”. Non credo di essere troppo blasfemo, se dico che spesso ci capita di prendercela talmente tanto con questo Dio così enigmatico e misterioso, che ci viene davvero voglia – perdonatemi la temerarietà – di fare a meno di lui.
Pare che Tommaso non abbia perso la pazienza con Gesù, ma di certo, la sua domanda è stata forte: “Signore, da che parte andiamo? Dove ci porti, perché possiamo venire con te?”. La risposta non è da meno, ed è forse tra le più famose autorivelazioni di Gesù presenti nei quattro vangeli: “Io sono la via, la verità e la vita”. Quasi a dire: vuoi sapere dove stiamo andando? Andiamo, tu non ti preoccupare e seguimi: ci sono io. Vuoi capirci qualcosa, in tutta questa storia senza certezze e senza punti fermi? Andiamo, tu non ti preoccupare e vienimi dietro: ti dirò io la verità delle cose. Vuoi trovare finalmente la serenità interiore, la pace che dà senso alla tua vita, e non sai dove trovarla? Andiamo, tu non ti preoccupare e vieni con me: ci sono io, ti do io la vita di cui hai bisogno. Poche domande, sembra dirci Gesù: perché la risposta, in fondo è solo una, ovvero Lui. Lui e di conseguenza (come dice a Filippo) il Padre, che è con lui una sola cosa, e che insieme con lui da significato al nostro camminare, alla nostra sete di verità, al nostro anelito di vita.
Certo, alla fine di questo brano di Vangelo, non siamo più noi che ce la prendiamo con il Dio enigmatico e misterioso, ma è lui che se la prende con noi per la nostra difficoltà a capire: “Da tanto tempo sono con voi e non mi avete conosciuto?”. Me lo immagino, questo Maestro così misericordioso eppure così fermo, che parlava ai discepoli alla vigilia della sua passione, e dopo aver percorso tre anni di vita insieme. Tre anni fatti di miracoli, di segni, di prodigi, di parole di vita, di folle festanti, di conversioni profonde, di respiri di pace e di fraternità, non senza forti opposizioni. E me lo immagino ora, una mese esatto dopo il Calvario, a dire a noi: “Non capite ancora? Non mi avete conosciuto? Non eravate sotto la croce? Non avete trovato la tomba vuota? Non mi avete ascoltato mentre vi scaldavo il cuore spiegandovi le scritture? Non mi avete riconosciuto nello spezzare il pane? Non vi ho forse donato la pace, la sera di quello stesso giorno, nonostante le porte chiuse del vostro cuore? Non vi ho mostrato i segni della passione nel mio corpo? Non vi ho aperto la porta del recinto per entrare e uscire, e trovare in me libertà e conforto?”.
Non è affatto facile capire tutto questo fino in fondo; e per farlo, occorrerà una Forza supplementare dall’alto, che non tarderà ad arrivare. Ma nel frattempo, poche domande e molta fiducia: non sai dove andare? Io sono la Via. Non sai più cosa credere? Io sono la Verità. Non sai più qual è il senso del tuo affannarti sotto il sole? Io sono la Vita.
Più semplice di così…
25/05/2014
25 maggio 2014 - VI Domenica di Pasqua (Anno A)
25/05/2014
25 maggio 2014
VI Domenica di Pasqua (Anno A)
At 8,5-8.14-17 / Sal 65 / 1Pt 3,15-18 / Gv 14,15-21
Presente e futuro
Sembra strano ma penso che tutta questa domenica si possa riassumere in questi 2 tempi del verbo: se mi amate, osserverete; allora io pregherò, il Padre vi darà...
Si parte dal presente e subito si apre un futuro che appartiene a Dio, il presente è il mio (da vivere, da fare) mentre il futuro appartiene a Dio (il Figlio prima e poi il Padre). Ma in concreto cosa significa? Mi sembra allo stesso tempo evidente e affascinante: a me viene chiesto solo di amare Dio: è solo dall'amore per Dio che nasce la fedeltà ai comandamenti (se mi amate - ORA - allora riuscirete ad osservare i comandamenti - FUTURO -).
Se funziona così allora la domanda che mi torna indietro non è tanto se sono o no un peccatore (questa la so: certo che si!) ma se amo o no Dio.
La fedeltà ai comandamenti nasce dall'esperienza dell'amore di Dio accolto, cioè se ho capito che Dio è buono e mi vuole bene, che non mi ha mai dato, e né lo farebbe mai, una fregatura, che tutto quello che mi chiede in realtà me lo sta indicando perché io possa essere felice; beh allora i comandamenti sono io in prima persona che voglio conoscerli e poi viverli.
A questo punto del discorso una domanda cattiva è chiedere quali sarebbero questi comandamenti? I 10 comandamenti datici da Mosè? Ma Gesù dice che sono i suoi! E allora quali sono questi suoi? "Ama Dio con tutto te stesso e gli altri come te stesso"? Ma questi sono i due comandamenti che riassumono tutta la Legge, non sono proprio proprio di Gesù; e allora? Io suggerirei: amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi.
Questa domanda non era una prova di catechismo biblico a chi sa più citazioni, ma è la domanda che ti svela cosa pensi di Dio o quale esperienza hai fatto di Lui. Siamo ancora al catechismo di prima comunione? Bellissima esperienza che però si perde nella polvere dei ricordi dell'infanzia; oppure un Dio grande Ragioniere che conta tutto: buone azioni, cattive azioni e omissioni, alla fine ci darà l'estratto conto e forse ci chiederà, come il vigile, se vogliamo conciliare per pagare di meno la multa?
Dio è amore! E vorrei aggiungere: e basta! Gesù questo ci chiede: di credere alla sua testimonianza sul Padre con il dono che ci fa della sua vita.
Allora diventa chiaro a cosa serve lo Spirito Santo: è Colui che mi fa entrare in questo circolo virtuoso, è quello che mi scalda il cuore e mi fa passare la paura di Dio. È Colui che mi fa assaporare quella formula "come io vi ho amati": è Colui che mi aiuta a leggere la mia vita e a poter dire: si, Signore, sei proprio Tu quello che mi ha condotto fin qui, sei Quello che mi ha salvato (perché nella mia fede io dovrei poter ricordare - rientrare nel cuore - le esperienze di salvezza che Gesù mi ha fatto fare, altrimenti il rischio è che io creda all'idea di Gesù ma che non abbia mai fatto esperienza di Lui).
Per questo c'è una circolarità: se Lo ami attraverso i suoi comandamenti sei in comunione con Lui, perché abbiamo visto che riusciamo a godere della sua grazia, quindi in Gesù ti si apre la porta del Padre. Lo Spirito è sempre in relazione con Gesù e la sua opera, perché mi fa capire quello che Gesù è e quello che ha fatto nella mia vita, aprendomi gli occhi allora riuscirò a percepire anche l'amore del Padre; tutto questo a patto che abbia il cuore aperto. Per questo dice che lo Spirito dimora presso di noi ma poi, addirittura, sarà dentro di noi, perché dobbiamo desiderare che abiti dentro di noi.
In fondo lo schema presente - futuro si compie, anche se ci aggiungerei qualcosa di passato: lo Spirito adesso mi apre il cuore e la mente ed io allo stesso tempo riconosco quello che Gesù ha già fatto per me e gli dico di si, di conseguenza mi disporrò all'infinito di grazia che Gesù mi vuole consegnare.
Filippo lo ascoltavano perché era credibile: cioè aveva fatto quest'esperienza. La seconda lettura dice che dobbiamo essere sempre pronti a dare ragione della speranza che è in noi, ma va da sé che se ho sperimentato allora posso dire perché credo in Dio e nel suo amore.
Allora diventa comprensibile l'affermazione che la nostra vita si trasforma a contatto con Lui, che non abbiamo più paura né di vivere e né di soffrire facendo il bene perché significa che siamo in comunione con Gesù e il Padre e non ci lasciamo staccare da Lui.
Domenica scorsa ci aveva detto che avremmo fatto cose grandi perché ci avrebbe donato lo Spirito Santo: queste sono le opere grandi.
Presente - futuro: ci ha spiegato cosa fare, ascoltare lo Spirito che ci fa riconoscere Gesù nella nostra vita e non fuggire da quell'amore.
È vero che ci vuole coraggio a cercare di essere felici: lascia che lo Spirito ti doni questo coraggio.
01/06/2014
1 Giugno 2014 ASCENSIONE DEL SIGNORE (ANNO A)
01/06/2014
1 Giugno 2014
ASCENSIONE DEL SIGNORE (ANNO A)
Il Signore risorto è ritornato nella Galilea pagana. È qui che egli aveva cominciato ad annunciare la conversione e il Vangelo del Regno. È qui, in questo luogo di frontiera, che egli aveva dato appuntamento ai suoi discepoli, che si erano dispersi quando egli, il pastore, era stato ferito. È ritornato sui luoghi dell’inizio, per dare loro la pienezza: il Risorto è la luce decisiva che rischiara tutti coloro che camminano nelle tenebre e nell’ombra della morte.
Egli ha convocato i discepoli - in numero di undici - su una montagna, come all’inizio li aveva condotti sulla montagna, quando parlò loro per annunciare la via della felicità del regno dei cieli. Dio ha anche convocato il popolo ai piedi del Sinai quando ha voluto fare di lui la sua “Ekklesia”. Il Risorto è su questa montagna in Galilea, che simboleggia l’incontro tra il cielo e la terra, dichiarandosi, solennemente, come colui che ha ricevuto tutta l’autorità nei cieli e sulla terra.
Da questa montagna egli invia i discepoli - e in loro, e con loro, noi tutti che li seguiamo lungo la storia - a convocare la Chiesa per riunirla dai quattro punti cardinali del mondo nel regno; nessuno è escluso dalla parola e dalla partecipazione alla vita della famiglia divina: la comunione del battesimo con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Oggi noi, come gli undici discepoli sulla montagna, lo adoriamo e riaffermiamo la nostra obbedienza al suo comando missionario. Egli sembra assente ma è in realtà sempre presente tra di noi. È per questo che si è fatto uomo nel seno della Vergine Madre: per essere l’Emmanuele, il Dio con noi, fino alla fine del mondo.
08/06/2014
8 giugno 2014 - Pentecoste (Anno A)
08/06/2014
8 giugno 2014
Pentecoste (Anno A)
At 2,1-11 / Sal 103 / 1Cor 12,3-7.12-13 / Gv 20,19-23
Lo Spirito Santo è lo Spirito di Cristo ed è la Persona divina che diffonde nel mondo la possibilità di imitare Cristo, dando Cristo al mondo e facendolo vivere in noi.
Nell’insegnamento e nell’opera di Cristo, nulla è più essenziale del perdono. Egli ha proclamato il regno futuro del Padre come regno dell’amore misericordioso. Sulla croce, col suo sacrificio perfetto, ha espiato i nostri peccati, facendo così trionfare la misericordia e l’amore mediante - e non contro - la giustizia e l’ordine. Nella sua vittoria pasquale, egli ha portato a compimento ogni cosa. Per questo il Padre si compiace di effondere, per mezzo del Figlio, lo Spirito di perdono. Nella Chiesa degli apostoli il perdono viene offerto attraverso i sacramenti del battesimo e della riconciliazione e nei gesti della vita cristiana.
Dio ha conferito al suo popolo una grande autorità stabilendo che la salvezza fosse concessa agli uomini per mezzo della Chiesa!
Ma questa autorità, per essere conforme al senso della Pentecoste, deve sempre essere esercitata con misericordia e con gioia, che sono le caratteristiche di Cristo, che ha sofferto ed è risorto, e che esulta eternamente nello Spirito Santo.
15/06/2014
15 giugno 2014 - Santissima Trinità (Anno A)
15/06/2014
15 giugno 2014
Santissima Trinità (Anno A)
Es 34,4-6.8-9 / Dn 3,52-56 / 2Cor 13,11-13 / Gv 3,16-18
“Devi camminare al passo di Dio; non al tuo!”
Mi dici di sì, che sei fermamente deciso a seguire Cristo.
Allora devi camminare al passo di Dio; non al tuo!
Vuoi sapere qual è il fondamento della nostra fedeltà?
Ti direi, a grandi linee, che si basa sull'amore di Dio, che fa vincere tutti gli ostacoli: l'egoismo, la superbia, la stanchezza, l'impazienza...
Un uomo che ama, calpesta sé stesso; sa che, pur amando con tutta l'anima, non sa ancora amare abbastanza.
Nella vita interiore, come nell'amore umano, è necessario essere perseverante.
Sì, devi meditare molte volte gli stessi argomenti, insistendo fino a scoprire una nuova America.
E come mai non avevo visto prima questa cosa così chiara? Ti domanderai con sorpresa. Semplicemente perché a volte siamo come le pietre, che lasciano scorrere l'acqua, senza assorbirne neanche una goccia.
Pertanto, è necessario tornare a riflettere sulla stessa cosa, che non è mai la stessa! per impregnarci delle benedizioni di Dio.
Dio non si lascia superare in generosità, e tienilo per certo! Concede la fedeltà a chi gli si arrende.
Oggi è la Festa della Santissima Trinità.
E' la Festa di Dio che è Padre Creatore; di Gesù che è Figlio Salvatore; dello Spirito Santo, lo Spirito di Dio, che è Amore.
Sono tre persone divine distinte, ma un unico Dio.
Non ci inoltriamo in questo argomento su cui i teologi si sono tanto scervellati, ci crediamo e basta. Questa è la nostra fede.
Dalla Trinità noi impariamo ad amare:
il Padre ci ha amato così tanto da donarci il suo Figlio Unigenito. Cristo ci ha amato così tanto da farci il dono di diventare fratelli suoi grazie alla sua morte e risurrezione. Lo Spirito Santo, Amore reciproco tra il Padre e il Figlio, Amore fatto persona, abita così profondamente in noi che ci insegna a comportarci ad immagine di Gesù.
Un grande Santo, Agostino, ha detto: "Vedi la Trinità se vedi la carità”. Ecco allora la nostra parola d'ordine: CARITA', cioè l'Amore incondizionato di Dio. Tu ci sta?
12/06/2014
22 giugno 2014 - Corpo e Sangue di Cristo
12/06/2014
22 giugno 2014
Corpo e Sangue di Cristo
Dt 8,2-3.14b-16a; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58
Una domenica per riflettere su chi è Dio.
Una domenica per riflettere su cosa facciamo ogni domenica.
Abbiamo bisogno di molto Spirito Santo per capire, per non banalizzare, per lasciarci convertire. Molto.
Perché il cuore della presenza di Cristo, quella doppia mensa della Parola e dell’eucarestia, l’incontro gioioso col risorto che faceva dire ai primi martiri: non possiamo non celebrare il giorno del Signore, l’inizio della settimana, il pane del cammino, la cena del Signore ripetuta con fedeltà in obbedienza dai primi secoli.
Oggi è diventata, quando va bene, stanca abitudine, reiterata cerimonia, perdendo il senso dell’incontro con Dio, la consapevolezza dell’immensa fortuna che abbiamo nell’avere in mezzo a noi la presenza stessa del Signore che si fa pane spezzato, che si dona.
Cosa ci è successo? Perché è così difficile partecipare ad una celebra zione in cui si respiri la fede? Perché i nostri preti, invece di parlare della Parola, ci inondano di inutili parole e di astratti concetti teologici, o giocano a fare gli intrattenitori simpaticoni? Perché le persone che abbiamo intorno, troppo spesso, sono solo degli anonimi spettatori con i quali non abbiamo nulla da spartire?
Oggi è giorno per tornare all’essenziale, per ridire la fede della Chiesa: noi crediamo nella presenza di Cristo in mezzo alla sua comunità, nel segno efficace dell’eucarestia, nella Parola che riecheggia nei nostri cuori.
Un altro cibo
Un altro cibo è stato dato al popolo in fuga dall’Egitto. Un cibo inatteso e misterioso che il popolo riconosce come donato direttamente da Dio.
Abbiamo bisogno di nutrirci. Di cibo, ovvio, ma anche di affetto, di luce, di senso, di felicità.
E questo cibo manca: quante persone muoiono per inedia spirituale! Si spengono interiormente!
Manca il cibo che ci permette di camminare, di capire il grande mistero che resta l’esistenza di ognuno di noi!
È Dio che ci dona il pane del cammino verso la pienezza, verso l’eternità, verso la luce. È Dio che si fa pane. Un pane capace di renderci uniti.
Paolo a Corinto
È una comunità vivace, quella di Corinto, ma anche molto rissosa.
Persone di carattere diverso, di condizione sociale diversa faticano, dopo avere incontrato il Signore, a trovare sufficienti ragioni per costruire comunione. Proprio come accade oggi, quando la Chiesa italiana, troppo spesso, dà l’impressione di un’appartenenza esteriore, di una crescente rissosità, di una contrapposizione fra esperienze diverse, fra entusiasti e prudenti, fra conservatori ed innovatori.
E Paolo ha una felice intuizione: se ci frammentiamo così tanto, prendiamo il frammento che ci unisce.
Il pane spezzato riporta all’unità, all’essenziale, al centro. Siamo cristiani perché Cristo ci ha chiamato, ci ha scelto.
La Chiesa non è il club dei bravi cristiani che pregano Dio, ma la comunità dei diversi radunati nell’unico pane.
L’eucarestia, allora, diventa il catalizzatore dell’unità.
Corpo e sangue
Nell’impegnativo discorso fatto da Gesù dopo la moltiplicazione dei pani, Gesù parla esplicitamente della sua carne da mangiare e del suo sangue da bere.
Discorso scandaloso, incomprensibile, che pure preannuncia il gesto che, da lì a qualche tempo, compirà come ultimo dono fatto alla comunità.
Non dobbiamo scandalizzarci per la povertà delle nostre comunità, per la pochezza del vangelo così come viene vissuto dai cristiani. Il Verbo si fa carne, si consegna alle mani di un povero prete.
Gesù chiede ai discepoli di condividere la sua stessa vita.
Ecco cos’è l’eucarestia.
Non è un problema di lingua o di rito, ma di fede. Certo: sarebbe cento volte meglio se le nostre assemblee fossero più accoglienti, cantassero canti più belli e intonati, e se le nostre chiese fossero davvero luoghi ospitali che invitano ad alzare lo sguardo.
Ma è inutile illudersi: quello che ancora manca alle nostre liturgie è la certezza che il Signore si rende presente. Manca la fede.
29/06/2014
29 giugno 2014 - San Pietro e San Paolo Apostoli
29/06/2014
29 giugno 2014
Santi Pietro e Paolo Apostoli (Messa del Giorno)
At 12,1-11 / Sal 33 / 2Tm 4,6-8.17-18 / Mt 16,13-19
* La chiesa mette insieme oggi in un'unica festa i due più grandi personaggi delle origini cristiane, S. Pietro e S. Paolo, entrambi di stirpe giudaica, ebrei come Gesù.
Pietro, soprannominato Cefa da Gesù... capo degli apostoli, su di lui, come abbiamo sentito si edifica la chiesa...
Se rileggessimo tutti i passi dei vangeli che lo riguardano scopriremmo un personaggio focoso, sanguigno, sincero, spontaneo, capace di grandi slanci di amicizia, ma anche un uomo debole... tutti ci ricordiamo che la notte in cui Gesù viene arrestato - e malgrado la predizione del maestro - Pietro per tre volte lo rinnega...
Potremmo riassumere la sua vita con una frase-messaggio: "la tua debolezza non importa".
* Paolo, prima fariseo e persecutore della chiesa nascente, poi, dopo il misterioso incontro con Cristo sulla via di Damasco, missionario e fondatore di decine di comunità cristiane nel mondo greco, per primo ha il coraggio di proclamare che per ottenere il perdono e la salvezza da Dio non è necessario diventare prima ebrei, con la circoncisione e le pratiche della legge giudaica, ma che a giustificare l'uomo, a renderlo giusto davanti a Dio, è unicamente la sua fede in Gesù Cristo morto e risorto. Potremmo riassumere la sua vita con una frase-messaggio: "il tuo passato non conta.
* Di fronte alla vita di questi due santi, possiamo toccare con mano che nella vita cristiana non importa la debolezza dell'uomo, la sua incapacità a compiere qualcosa di buono, e nemmeno conta il passato con il suo carico di male compiuto, ciò che conta è la confessione di fede, il professare come fa Pietro di fronte a Gesù: tu sei il Cristo il figlio del Dio vivente.
Appena lo facciamo, cioè diciamo con convinzione a Gesù tu sei il Cristo, il salvatore, scopriamo, come Pietro, la grandezza del progetto che Dio ha con ciascuno di noi: tu sei pietro, tu diventi saldo in me, su di te io edifico la chiesa, e qualunque cosa succeda, il male non prevarrà mai su di te.
* Una simile confessione di fede la troviamo anche in Paolo, che una volta arriva a dire: "non sono più io che vivo, Cristo vive in me... Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, il pericolo, la spada? In tutte queste cose noi stravinciamo per virtù di colui che ci ha amati". Non conta perciò ciò che sei stato, non c'è peccato così grande che non possa essere perdonato: il vangelo, la grande buona notizia è che Dio ci ha amati per primo, e mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
*Perché la tradizione della chiesa fin dall'antichità ha messo insieme questi due santi in un'unica festa? Non era meglio, vista la loro importanza, prevedere due feste, distinte durante l'anno, in modo da onorare convenientemente ognuno di loro separatamente?
Lo Spirito Santo ha sicuramente suggerito invece di tenere uniti i due grandi personaggi in un'unica festa per presentare l'unità della chiesa, l'unità nella diversità... oggi è la festa della diversità che trova in Cristo il punto di convergenza e di unità.
* I due si sono conosciuti, si sono incontrati più volte, hanno dialogato, senza avere sempre la stessa opinione, anzi, a volte si sono scontrati su questioni importanti, decisive... non hanno detto, come a volte si dice, per amore del quieto vivere: "tutto va bene"... no, la chiesa non ha bisogno di persone fatte con lo stampino, che la pensino tutti allo stesso modo, ma ha bisogno di credenti che sappiano mettere in gioco i loro doni e ciascuno la ricchezza della propria diversità. Ma, come per Pietro e Paolo, decisivo è essere uniti nella stessa fede e nello stesso amore fraterno, che sono stati pronti a testimoniare fino a dare la vita.
* Non per niente sono stati uniti anche nel martirio, che entrambi subiscono a Roma, Pietro crocifisso sul colle vaticano...
Paolo decapitato alle tre fontane...
Il loro sangue versato per testimoniare la loro fede e il loro amore a Cristo, è stato seme per milioni di Cristiani, a Roma e nel mondo.
* Ciò che conta, ci dicono ancora oggi, non è la tua debolezza, né il tuo passato, ma unicamente la tua fede in Gesù Cristo, figlio del Dio vivente. E questa fede del cuore la professeremo tra poco, recitando il credo.
06/07/2014
6 luglio 2014 - XIV Domenica del Tempo Ordinario
06/07/2014
6 luglio 2014
XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Zc 9,9-10 / Sal 144 / Rm 8,9.11-13 / Mt 11,25-30
Gesù innalza al Padre una bellissima preghiera di lode. Potremmo anche noi impararla a memoria e con essa medicare il cuore. Gesù ringrazia il Padre per il dono della Parola. Un dono nascosto ad alcuni non perché Dio è ingiusto, ma perché quelli che si credono "sapienti e intelligenti" in realtà hanno il cuore indurito e la Parola non può educarli. I piccoli e i semplici, invece, lo capiscono il Vangelo e si riempiono di gioia.
La preghiera più bella perché porta la notizia più grande, quella di un Dio che è Padre, con tutte le conseguenze sull'amore fraterno, perfino verso i nemici, e la pace con tutti.
Infine, il dono della consolazione per tutti quelli che si sentono stanchi, nessuno escluso. Dinanzi all'oppressione della legge, la medicina è la mitezza e l'umiltà di cuore per accogliere docilmente ogni Parola del Padre, anche quelle incomprensibili.
Parole belle e importanti: "Imparate da me", "Troverete ristoro". È la parola della colomba di Noè che torna indietro perché l'arca era l'unica cosa che emergeva dalle acque. E il "giogo" dolce sta a dire che, per chi ama il Signore, la legge non è una catena, ma un braccialetto d'oro che lega questo incontro amoroso. Da qui l'invito di Gesù ad imparare da lui la mitezza: è il modo perfetto per imparare la legge nuova.
I sapienti e gli intelligenti sono i sani che non hanno bisogno del medico. I piccoli, invece, hanno bisogno della misericordia del Signore. Il giogo leggero è la misericordia. Gesù stesso è il primo di questi piccoli perché riconosce di aver ricevuto tutto dal Padre. È come se dicesse che la predilezione di Dio è per quelli che da soli non ce la fanno.
"Venite a me". È la direzione di ogni preghiera. È la direzione di ogni cammino.
Così inizia
la nostra estate, in compagnia di Dio che incontra i poveri e gli sconfitti,
che ignora i saccenti e gli arroganti, almeno lui.
Buona estate, cercatori di Dio, abbronzatevi l’anima.
13/07/2014
13 luglio 2014 - XV Domenica del Tempo Ordinario
13/07/2014
13 luglio 2014
XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Is 55,10-11 / Sal 64 / Rm 8,18-23 / Mt 13,1-23
Lo stoppino di una candela
La parabola è come lo stoppino di una candela: costa pochi spiccioli, eppure, per quanto fioca sia la sua luce, può far scoprire un tesoro.
E Gesù ha preso molto a cuore questo detto, facendo della parabola uno dei suoi mezzi comunicativi più efficaci.
La parabola prende delle immagini comuni, conosciute: esempi tratti dalla vita quotidiana, dal lavoro contadino, da eventi condivisi, e fornisce una chiave di interpretazione e di lettura della realtà, senza forzare, senza costringere, lasciando intatta la libertà di chi ascolta.
Rispettoso dell'uomo, Dio propone, indica, allude, senza mettere alle corde, senza costringere.
Che stile!
Le prime comunità hanno fatto tesoro di questo metodo, a volte riportando le parole di Gesù con qualche sfumatura, ampliandole, attualizzandole, così come, in teoria, accade ogni domenica nella nostra parrocchie.
Da dove viene il male?
Perché tanta follia?
La stessa domanda se la sono posta i primi cristiani, vedendo che la presenza del vangelo, piccolo seme gettato nel terreno sassoso, non portava i frutti sperati. La stessa domanda ce la poniamo noi, dopo duemila anni di cristianesimo.
E Gesù risponde.
Spreco
Tre quarti del seme vengono gettati nel terreno sbagliato: molti non attecchiscono, se attecchiscono faticano, se faticano, alla fine, vengono soffocati. Tre quarti.
Gesù ne parla in un momento non semplice della sua missione, in cui davvero ha la triste impressione che le sue parole siano travisate o scordate. È una parabola dai tratti cupi, problematici, davvero sembra che l'efficacia della sua predicazione sia sconfitta dalle distrazioni, dalle preoccupazioni, dall'opera dell'avversario.
Ma la cosa che stupisce è che, nonostante questo, il padrone getti il seme con abbondanza.
Anche sulle pietre, anche fra i cespugli.
È la memoria della tecnica di semina dell'epoca in cui prima si gettava il seme e dopo si mischiava alla zolla con l'aratro. Ma quello che resta di questa immagine è l'ottimismo di Dio che continua a seminare la sua Parola in questo mondo che ci soffoca di parole, tante, troppe, che la relega a testimonianza di una religiosità arcaica e popolare, come se fossero parole inutili, che fanno sorridere per la loro disarmante ingenuità.
No, la Parola non è affatto ingenua e continua a illuminare, anche se cade sulla pietra.
Risultati
Ha ragione il Maestro quando dice che spesso la Parola è portata via dal nemico.
Ha ragione quando dice che, spesso, la Parola deve fare i conti con le preoccupazioni e le ansie della vita. Quante persone cadono dalle nuvole quando cerco di illuminare le loro scelte con le parole del Signore e mi rispondono, candidamente, che la vita è un'altra cosa!
Ma, grazie al cielo, la Parola porta anche frutto, e in abbondanza.
Porta frutto in chi, leggendo la parabola, si è riconosciuto nei terreni duri e sassosi.
Porta frutto chi, con sofferenza, deve ammettere che troppo spesso la Parola ascoltata è rubata o soffocata dalla vita.
Perché il suo dolore manifesta il desiderio di custodirla, quella Parola, di farla crescere.
E quel desiderio è il terreno giusto.
Pioggia feconda
Difronte allo scoraggiato di noi cristiani, si alza con fermezza: la pioggia e la neve fecondano la terra e tornano in cielo solo dopo avere compiuto la propria missione. Così sarà della Parola di Dio.
Certo: i tempi di Dio non sono i nostri, ma l'efficacia delle sue promesse è indiscutibile.
L parola di Dio invita, a non scoraggiarci in questi tempi difficili, ma a perseverare nella lettura e nella meditazione quotidiana della Bibbia.
Forse la Parola che studiamo e ascoltiamo, che approfondiamo e preghiamo, al momento, non ci dice nulla. Ma, credetemi, l'ho sperimentato cento volte, una Parola accolta nel cuore torna alla mente quando meno ce lo aspettiamo.
È efficace la Parola di Dio, ma se non la conosciamo, se la ignoriamo, se la lasciamo accanto alle tante, troppe parole umane, non può fecondare il nostro cuore e portare frutto
20/07/2014
20 luglio 2014 - XVI Domenica del Tempo Ordinario
20/07/2014
20 luglio 2014
XVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Sap 12,13.16-19 / Sal 85 / Rm 8,26-27 / Mt 13,24-43
Tre parabole in successione. Il seme buono mescolato alla zizzania. Il minuscolo granello di senape. Una manciata di lievito nella massa della pasta. Nella prima c'è un elemento avverso, nemico. Nella seconda la sproporzione fra l'inizialmente piccolo (il granellino di senapa) e il grande albero di legumi capace di dare riparo agli uccelli del cielo (che simboleggiano i popoli della terra). Infine, la terza dice che l'estraneità (la pasta) diventa tutta fermentata dal poco lievito che vi era stato nascosto (impastato).
Ai figli del Regno è assicurato un esito pienamente positivo, il passaggio dall'inimicizia alla paziente convivenza sino alla completa fermentazione di tutta la storia alla fine dei tempi; il tutto attraverso l'umile pugno di lievito nascosto. Il bene vince il male cambiandolo dal di dentro, soprattutto salvando il peccatore.
Solo Matteo ha questa parabola sull'origine del Male e su come affrontarlo. All'inizio c'è solo il buono del terreno e la bontà del seme. La zizzania, opera del nemico, si aggiunge, ma non è l'esito finale. Perché il "no" del padrone davanti all'ipotesi di andare adesso a sradicare la zizzania. Per non estirpare, insieme alla zizzania, anche il grano e perché tutto è rimandato alla fine. Non è rassegnazione, ma grazia di conoscere in anticipo il giudizio divino, in modo che ci si possa convertire e vegliare.
La piccolezza del seme e l'immagine del lievito nascosto (impastato, nella pasta) dice che il bene e la grazia, da Gesù in poi, sono presenti in ogni prossimo, in ogni occasione. In un certo senso tutto è parabola che contiene in sé il mistero
Queste parabole fanno pensare alla grandezza di Dio! È un vero Signore che dà all'uomo la libertà e gliela lascia. Lascia crescere il bene come il male. Impedisce ai servitori di intervenire, perché il processo non è ancora compiuto. I pensieri e i tempi di Dio sono diversi da noi che ci identifichiamo con il grano e gli altri sono sempre la zizzania. Dio ci accetta non perché siamo buoni, ma perché lui è buono. Se Dio ci lascia crescere, è perché possiamo conoscerlo per quello che è. Padre.
27/07/2014
27 luglio 2014 - XVII Domenica del Tempo Ordinar
27/07/2014
27 luglio 2014
XVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
1Re 3,5.7-12 / Sal 118 / Rm 8,28-30 / Mt 13,44-52
Il tesoro nascosto
La vita è una caccia al tesoro. Bella storia.
E abbiamo in tasca le istruzioni, a saperle leggere. La mappa è offerta a tutti, gratuitamente.
E invece, tontoloni, siamo lì, col naso per aria, e diamo retta ai tanti che ci vogliono vendere le istruzioni per la felicità.
Diamo retta ai venditori di fumo, agli esperti di tutto, che ci spiegano che, per essere felici, abbiamo bisogno di una macchina più grande, di un corpo più snello, di uno stipendio milionario.
La cosa tragica è che molto credono a questa pia illusione!
Matteo scrive questa pagina trent'anni dopo avere lasciato tutto. Ha trovato il tesoro mentre lavorava nello spinoso campo della riscossione dei tributi; lì ha incontrato lo sguardo del Nazareno, l'ospite di Simone il pescatore, il falegname che si era preso per un profeta.
Il Messia si era avvicinato al banchetto delle imposte, senza odio, come facevano tutti, senza timore, e gli aveva chiesto di lasciare tutto e di seguirlo così, senza paura. Ed egli lo aveva fatto, senza sapere bene il perché.
Da allora la sua vita era cambiata
Pensava di avere in tasca una perla preziosa: soldi, rispetto, conoscenza altolocate; nello sguardo sorridente di Gesù aveva visto cos'era davvero il tesoro.
Anche noi pensiamo di sapere in che cosa consista la nostra felicità, crediamo di avere individuato il tesoro e investiamo energie e intelligenza per trovarlo.
Siamo proprio sicuri di sapere cosa ci riempie il cuore?
Salomone
Salomone è giovane ed eredita da suo padre Davide un regno in difficoltà: i nemici premono ai confini e il piccolo popolo di Israele è diventato una delle potenze dell'epoca, lotte intestine dilaniano la corte e Davide stesso ha sperimentato il dolore lancinante di vedere il proprio trono assediato dai suoi figli. Salomone, figlio della preferita, Betsabea, è stato scelto. Lui, ora, regna.
Ha di fronte a sé un compito immane: proteggere e governare il popolo, far costruire il tempio.
È giovane, molto giovane e ha bisogno di aiuto.
Dio gli farà un dono.
Salomone chiede in dono la capacità di agire con saggezza.
Grandioso! Se trovassimo la famosa lampada di Aladino cosa chiederemmo?
Salute, ricchezza, amore, serenità?
Salomone chiede la saggezza di governare un popolo, non per sé, ma per gli altri.
Quando parliamo di tesoro nella nostra vita, quando cerchiamo la felicità, abbiamo bisogno di saggezza per fare le scelte giuste.
Tesori e perle
Per la terza domenica consecutiva la liturgia ci consegna una pagina di parabole. Gesù usa le parabole per facilitare la comprensione del mistero di Dio. Usando immagini conosciute a quanti lo ascoltano, il Signore dimostra la sua capacità comunicativa e la sua volontà.
Imparassimo da lui a parlare di Dio, invece di sfoggiare elaborati linguaggi teologici incomprensibili ai più!
Tre sono le piccole parabole di oggi. La prima e l'ultima parlano di qualcosa di prezioso, che cambia la vita alle persone.
Un uomo trova un tesoro mentre sta scavando, ricopre il tutto e compra il campo.
Un collezionista di perle, l'oggetto più prezioso in antichità, come sono per noi oggi i diamanti, trova una perla straordinaria e la compra.
L'idea di fondo è la stessa: la vita è una ricerca, e Dio solo conosce ciò che può riempire i nostri cuori.
Solo Dio sa cosa ci rende profondamente felici, autenticamente felici.
A volte incontriamo Dio senza cercarlo, come fa quel tale che trova il tesoro zappando.
Altre volte, invece, l'incontro con Dio è l'approdo dopo una lunga e laboriosa ricerca che può durare tutta la vita.
Cosa stiamo cercando? Stiamo ancora cercando?
Nel cuore dell'estate il Signore si propone come colui che, unico, colma il nostro cuore.
Reti e pesci
Sul lago di Tiberiade la pesca avveniva a strascico. Una volta giunti a riva i pescatori dovevano fare una cernita, rigettando in mare i pesci impuri o non commestibili. Così è la dinamica spirituale: una volta scoperto il tesoro, rapiti dall'entusiasmo, ci mettiamo alla sequela del Signore. Ma occorre fare una cernita delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti, come il campo seminato a buon grano cresce con la zizzania, così la nostra vita spirituale cresce con fatica, dopo l'adesione degli inizi.
La costanza nasce dalla meditazione della Parola, dalla frequentazione del Signore, dalla compagnia della comunità.
Ma, per oggi, facciamo memoria del momento in cui abbiamo trovato il tesoro e trovato la perla.
E se questo non è ancora avvenuto, diamoci da fare!
03/08/2014
3 agosto 2014 - XVIII Domenica del Tempo Ordinar
03/08/2014
3 agosto 2014
XVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Is 55,1-3 / Sal 144 / Rm 8,35.37-39 / Mt 14,13-21
Il "MANGIARE" MATERIALE
C'è un concetto che ricorre oggi in tutte e tre le letture che abbiamo ascoltato: "mangiare”.
Nella prima lettura il Signore dice: "Mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare".
Nella seconda lettura si parla dell'assenza del mangiare: S. Paolo si domanda se la fame è tra le cose cattive che ci possono separare dall'amore di Cristo.
Nel Vangelo i discepoli suggeriscono a Gesù di congedare la folla affinché vada a comprarsi da mangiare.
Il mangiare è, assieme al dormire, una delle necessità fondamentali dell'uomo. Senza queste due cose si va incontro alla morte fisica.
Prima si pensi a vivere, poi a fare della filosofia» è una frase ripetuta talvolta, anche con significato estensivo, come richiamo a una maggiore concretezza e a una maggiore aderenza agli aspetti pratici della vita; non si può pensare alle cose spirituali se abbiamo la pancia vuota.
Certamente una prima riflessione che possiamo fare oggi è quella relativa alla carità verso i poveri.
Potremmo parafrasare così le parole di Paolo VI, nella Evangelii Nuntiandi: "Tra evangelizzazione e attenzione all'uomo ci sono dei legami profondi. Legami di ordine antropologico, perché l'uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma ha bisogno di cibo e sostentamento. Legami di ordine teologico, poiché non si può dissociare il piano della creazione da quello della Redenzione che arriva fino alle situazioni molto concrete della fame e della povertà. Legami dell'ordine eminentemente evangelico, quale è quello della carità: come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere la vera, autentica crescita di tutto l'uomo? Sarebbe dimenticare la lezione che ci viene dal Vangelo sull'amore del prossimo sofferente e bisognoso".
Gesù dimostra una sensibilità del tutto particolare verso le persone che, dopo averlo seguito e aver ascoltato la sua parola, hanno fame e sete: il suo cuore freme e "sentì compassione per loro".
Le guarigioni che Gesù compie, così come il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci sono un segnale chiaro della presenza del Regno di Dio e l'attenzione ad ogni singola persona sofferente deve diventare per ciascun cristiano un primo, forte, impegno nell'annuncio del Vangelo.
È vero, come dice Paolo, che la fame non ci può separare dall'amore di Dio.
Dio continua ad amarci. Anzi, ama particolarmente i poveri e coloro che sono vittime dell'ingiustizia umana, ma la Chiesa deve avere sempre una attenzione particolare per gli uomini e le donne a cui annunzia il Vangelo, considerando la loro totalità: la parte spirituale e quella materiale.
IL "MANGIARE" SPIRITUALE
Ma c'è anche un secondo significato, spirituale, nella Parola che abbiamo ascoltato.
Quando il profeta Isaia chiede agli israeliti: "Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia?", non si sta riferendo solo al cibo materiale, ma anche a ciò che dà senso alla vita.
Esiste una fame, in ogni uomo e in ogni donna, che Dio ha posto nell'intimo del cuore, ed è la fame di Dio, di significato, di amore.
Nella parabola del figliol prodigo si dice che a un certo punto questo ragazzo si trova da solo, a dare da mangiare ai porci: "Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava". Avrebbe potuto prendersele lui le carrube. Ma non è il cibo materiale ciò che gli manca: gli manca terribilmente qualcuno che glielo dia. Il gesto di preparare da mangiare per qualcuno, ci dice l'antropologia culturale, è uno dei segni più belli di attenzione verso una persona, in tutte le culture del mondo.
L'uomo non è solo uno stomaco da riempire, ma un cuore alla ricerca di senso.
Ecco allora che Dio ci invita a non buttare via la nostra vita, alla ricerca di cose solo materiali, che non hanno il potere di saziare la fame e la sete profonda che Dio ha posto nel nostro cuore.
"Tu ci hai fatto per te, Signore. E il nostro cuore non trova pace finché non si nutre di te" direbbe oggi S. Agostino.
"Ecco verranno giorni - dice il profeta Amos - in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore.
È questa la fame delle 5000 persone che si fermano tutto il giorno ad ascoltare Gesù. È questa la fame che, anziché separarci dall'amore di Cristo, ci attira irresistibilmente verso di lui. È questa la fame spirituale di cui parla Isaia nella prima lettura, e da cui è tanto afflitta l'umanità oggi.
Il canto al Vangelo di oggi recita: "Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio".
La seconda riflessione che la Parola ci propone è quindi relativa al nostro spirito. Creati ad immagine di Dio, abbiamo bisogno di nutrirci della sua Parola, riunendoci come comunità di fratelli attorno alla mensa del Libro e dell'Eucaristia.
Don Oreste Benzi era solito ripetere: "È solo stando inginocchiati che si riesce a rimanere in piedi". Potremmo aggiungere: è solo nutrendoci della Parola e dell'Eucaristia che la Chiesa potrà offrire un autentico servizio di carità, senza ridursi al ruolo di un ONLUS, o, peggio, di una "agenzia che offre servizi”. C’è un dettaglio su cui dobbiamo focalizzare l'attenzione. Gesù ordina ai discepoli: "Voi stessi date loro da mangiare". C'è quindi una necessità di "dare del nostro" agli altri. Ma poi Gesù si fa dare da loro i cinque pani e i due pesci, li tiene saldi nelle sue mani sante, li benedice e li restituisce ai discepoli affinché li distribuiscano.
C'è un solo modo affinché la carità della Chiesa possa diventare efficace: occorre dare tutto a Gesù, affinché lo benedica e ce lo riconsegni benedetto.
Se saltiamo questo passaggio, piccolo ma fondamentale, ci troveremo esauriti ed impoveriti, desiderosi di sfamare il mondo intero, ma privi di forza e demotivati, in quanto le nostre risorse sono limitate e solo Gesù le può potenziare e moltiplicare.
LA GRATUITÁ INCOMPRESA
Un ultimo appunto riguarda il ricevere "senza denaro, senza pagare”. Una recente indagine di mercato, svoltasi negli Stati Uniti, ha rivelato che tra le migliaia di scarpe da jogging in vendita nel paese, il modello con le qualità e i materiali migliori non veniva acquistato perché costava troppo poco. La gente preferiva spendere di più, per avere un paio di scarpe dalle prestazioni inferiori.
Il prezzo basso causava sospetti e bloccava le vendite. Bastò raddoppiare il prezzo e le stesse scarpe andarono a ruba tra gli sportivi.
Viviamo in una cultura che ha in sospetto la gratuità. L'uomo post-moderno è incapace di ricevere gratuitamente: non riesce a lasciarsi amare, senza chiedersi: "Cosa devo dare in cambio?". Per lui è più facile tentare di amare che lasciarsi amare liberamente da Dio.
L'amore di Dio è incondizionato. Incondizionato significa "privo di condizioni". Dio non ci ama perché siamo buoni, oppure perché ci comportiamo bene, oppure perché andiamo a Messa. Egli ci ama così come siamo, anche con i nostri peccati e limiti. Se cessasse di amarci anche per un solo secondo, noi cesseremmo di esistere.
La sua Parola ci invita oggi ad amarlo e lasciarci amare (amando anche noi stessi) così come siamo.
L'accettazione dell'amore gratuito di Dio, del suo perdono gratuito e incondizionato, diventa fonte di guarigione spirituale, psicologica, emotiva, fisica. “Capisco che non posso fare affidamento sui pochi centesimi di amore che soli mi appartengono, non bastano per quasi nulla. Nei momenti difficili, se non ci fossi tu, Padre saldo, Figlio tenero, Spirito vitale, cosa potrei comprare con le mie monetine?
10/08/2014
10 agosto 2014 - XIX Domenica del Tempo Ordinari
10/08/2014
10 agosto 2014
XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
1Re 19,9.11-13 / Sal 84 / Rm 9,1-5 / Mt 14,22-33
Violenza e tempesta
Siamo storditi, ammettiamolo.
Ancora a piangere morti, ancora ad assistere, impotenti e rassegnati, all'ennesimo massacro. Gaza, Ucraina, Libia, i tanti scenari che non meritano nemmeno una notizia sui telegiornali. Il Califfato che caccia i cristiani da Mosul e che fa esplodere le moschee (!). Storditi e confusi, in un'estate che, almeno per metà Italia e San Marino, è un autunno anticipato ed una crisi economica che spegne anche la voglia di reagire. E ci sembra di affondare. Lentamente.
Violenza e tempesta. Proprio la Parola di oggi.
Un silenzio assordante
Nove secoli prima di Cristo il profeta Elia scopre che il popolo segue ogni novità, anche in campo della fede. Onri, con un colpo di stato, conquista la Samaria e fa sposare suo figlio Acab a Gezabele, una regina straniera che porta con sé il culto dei Baal.
Alla gente, in fondo, quella novità non dispiace: la nuova religione, in fondo, è meno noiosa di quella tradizionale.
Elia è pieno di zelo per il Dio dei padri e non riesce a trovare altri che, come lui, difendano la fede autentica.
Si trova come noi, attorniato da persone che non si preoccupano molto della verità e che seguono le proprie emozioni costruendosi una fede su misura, disinteressato dell'oggettività.
Allora sfida i sacerdoti di Baal in un'ordalia sul monte Carmelo e dimostra al popolo che Dio è l'unico, facendo scendere dal cielo un fuoco che consuma un sacrificio, cosa non riuscita ai quattrocento sacerdoti di Baal. Davanti a tanto dispiegamento di potenza la folla osanna Elia e il suo Dio. Ma Elia si fa prendere la mano e fa uccidere tutti i sacerdoti dalla folla entusiasta: la regina Gezabele, livida di rabbia, lo vuole uccidere.
È qui che troviamo Elia, oggi, spaventato e consumato, desideroso di morire nel deserto.
L'illusoria vittoria intrisa di sangue non ha fatto che peggiorare le cose.
No, Dio non è nella violenza, questo ora ha capito Elia che si ritrova sul monte dell'alleanza.
Questo vorrei capissero coloro che continuano ad uccidere profanando il nome di Dio.
E qui, sull'Oreb, Elia capisce e ci fa capire qualcosa di splendido.
Dio non è nella violenza, né nei grandi eventi naturali o nei prodigi, ma nell'intimo di ciascuno di noi.
Nella brezza del mattino anzi, come più precisamente, nella voce del silenzio.
Abbiamo disimparato l'ascolto del silenzio.
Il luogo dove incontriamo Dio.
Tempeste
Succede sempre così.
Quando pensi di avere capito tutto, quando pensi di essere lanciato sulla nuova strada della fede, ecco che scopri l'assenza di Dio. Sono lontane le emozioni della preghiera, la fede entusiasta che fa cantare e gridare di gioia, lontana la comprensione della Parola che sembra essere tornata un insieme di parole senza significato. Dio c'è, d'accordo, ma è lontano, non sembra più occuparsi di noi.
Allora tutto diventa faticoso, dolorante, inutile.
Dov'è quel Dio che avevamo scoperto?
E i dubbi crescono: ci siamo sbagliati?
Non dobbiamo avere paura del dubbio: il dubbio è salubre, una fede senza dubbi è inutile e non ci cambia il cuore. Perché il dubbio spinge alla comprensione, al confronto, all'abbandono fiducioso.
L'episodio descritto dal vangelo, più teologico che storico, dice che la barca era agitata dalle onde.
In greco l'evangelista usa un verbo che, letteralmente, indica il sottoporre alla prova e che richiama una pietra durissima usata a Lidia per verificare la qualità di un metallo.
Ci spaventa la prova, ma ci aiuta a capire quanto è robusta la nostra fede.
Eccolo
Proprio quando l'onda è alta su di noi, proprio quando ci sembra di essere sconfitti, qualcosa accade. Gesù cammina sulle acque tempestose e ci ripete: «Coraggio, sono io, non abbiate paura».
Israele è sempre stato un popolo da terraferma: il mare in tempesta rappresenta il peggior incubo immaginabile per un ebreo.
Gesù viene camminando sulle acque, padroneggiando proprio le paure più terribili che possiamo immaginare, quelle che ci impediscono di gioire, che ci tagliano il fiato.
La malattia, la morte di qualcuno che amiamo, l'abbandono, la solitudine.
Pietro si tuffa', anche lui vuole camminare sulle acque, sulle difficoltà: si fida, muove i primi passi e poi miseramente sprofonda nel lago agitato.
Non basta il coraggio per camminare sulle acque del dubbio, Pietro ancora deve attraversare il deserto per crescere. Non si getterà più dalla barca, non vorrà più per sé un futuro eroico con una fede eclatante, starà seduto a guidare il timone per portare i fratelli all'altra riva.
Davanti ai dubbi di fede, davanti alle tempeste della vita, il discepolo è chiamato, come Elia, ad ascoltare nel suo cuore il silenzioso mormorio di Dio, recuperando quella dimensione assoluta che è il silenzio, la preghiera, l'ascolto meditato del grande e quieto oceano della presenza di Dio, per vedere il volto di Dio che si nasconde nel vento, che pare evanescente come un fantasma.
Solo così possiamo non cedere alla rassegnazione.
15/08/2014
15 agosto 2014 Assunzione della Beata Vergine Mari
15/08/2014
15 agosto 2014
Assunzione della Beata Vergine Maria
Ap 11,19; 12,1-6.10 / Sal 44 / 1Cor 15,20-26 / Lc 1,39-56
Due donne gravide s'incontrano e si raccontano la storia in chiave di felicità ed esaltazione di Dio. Tutto in un saluto nato da un gesto d'amore di una donna, un viaggio fatto in fretta per amore verso un'altra. L'amore di Dio porta a quello per il prossimo. Maria è partita per dire bene; a noi capita il contrario.
Le donne li portano dentro, ma sono i due bambini a modificare l'identità delle madri. Una addirittura è detta Madre del Signore, Madre di Dio. È la prima volta che lo si dice di Maria e lo sarà per sempre. Perché ha creduto nel compimento delle parole dette a lei; un adempimento molto personale.
"Maria si alzò e andò". È il verbo della resurrezione, per questo il suo saluto è pasquale, porta gioia e anche il bambino di Elisabetta lo avverte ed esulta. In Elisabetta e nel suo bambino c'è tutta l'umanità che aspetta di essere visitata. Tra le due donne c'è uno scambio, sono tutte due importanti, come ogni incontro di carità c'è la reciprocità di lavarsi i piedi, di abbracciarsi.
È una donna, la sposa, che pronuncia il cantico e la prima frase, "l'anima mia magnifica il Signore", lo spiega. "Magnificare" significa "far grande"; non Dio in sé è "fatto grande", ma la sua presenza in noi. Lo dirà anche Giovanni Battista: io devo diminuire e lui deve crescere!
Il canto di Maria non è una profezia nel senso di preveggenza. La storia, infatti, raramente ha mostrato il rovesciamento dei potenti a favore degli umili o la sazietà degli affamati dinanzi alle mani vuote dei ricchi. Maria, usando solo la Parola di Dio, legge la storia con gli occhi di Dio; Maria interpreta e vive quello che le succede secondo la Parola e col suo canto porta la Parola anche a Elisabetta. Questo dobbiamo imparare a fare anche noi.
Sull'umiltà di Maria, Dio ha compiuto grandi cose. Per questo le future generazioni la chiameranno beata. Tutte le beatitudini sono raccolte nella beatitudine che descrive la persona e l'esistenza della Madre di Dio: immacolata e assunta in cielo. Maria è la "Beata", la "piena di grazia", la sintesi e la pienezza di tutta la Parola che Dio ha donato al suo Popolo. E perché ha creduto, Maria è veramente l'arca della Nuova Alleanza.
14/08/2014
17 agosto 2014 - XX Domenica del Tempo Ordinario
14/08/2014
17 agosto 2014
XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Is 56,1.6-7 / Sal 66 / Rm 11,13-15.29-32 / Mt 15,21-28
È sempre salvifico l'incontro di Gesù col nostro cuore malato. Quello con la cananea allarga il dramma e la necessità di ricevere aiuto a tutta l'umanità; una tragedia dalla quale solo Dio può scamparci.
Gesù resiste con durezza alla richiesta di questa donna straniera: "Non le rivolse neppure una parola... Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele... Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini".
Il privilegio d'Israele rimane la via obbligata per tutta l'umanità come modello essenziale per avere salvezza: non l'uomo che s'innalza verso Dio, ma un Dio compassionevole che si abbassa fino agli uomini. Questa è la fede che Gesù trova nella donna; è la fede d'Israele, anzi in una misura che non si trova - come nel caso del centurione - in tutto Israele! Significa che non c'è scampo se non per chi ha bisogno e supplica di essere salvato.
La donna cananea, straniera e madre, rappresenta la Chiesa delle genti, la speranza per tutti i popoli, il bisogno di portare il Vangelo in ogni angolo della terra. Come il pane ai cagnolini: gesto di fede e umiltà, di fiducia nella misericordia e gesto d'infinita compassione.
Gesù la esaudisce, si piega su di lei, ma ne esalta la figura; quasi si converte alla fede di quella donna che sa bene come stanno le cose, che ha una fede grande quanto la sua umiltà. Nemmeno i discepoli fanno come quella madre che, per ottenere la guarigione della propria figlia, chiama per tre volte Gesù come Signore. Una pagina di Vangelo che arriva fino a noi, a suggerire una fede che si arrende al Signore.
17 agosto 2014
XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Is 56,1.6-7 / Sal 66 / Rm 11,13-15.29-32 / Mt 15,21-28
Lo straniero ci inquieta, ci scomoda, ci preoccupa, ci inquieta.
Ogni straniero. Ha abitudini diverse dalla nostra, parla una lingua incomprensibile, non conosciamo la sua cultura, le sue abitudini. Certo: il concetto di “straniero”, oggi, è decisamente cambiato. Dalle mie parti, fino al dopoguerra, era straniero uno che veniva dalla vallata vicina. Poi lo divenne chi proveniva da una regione italiana. Poi da un paese europeo confinante. Ieri al supermercato ho incontrato un mio ex-alunno, un bravissimo ragazzo appassionato di agricoltura e di montagna, che mi ha presentato sua moglie, una brasiliana conosciuta in un progetto internazionale.
Davanti allo straniero possiamo compiere lo sforzo del confronto oppure della chiusura. Come Israele.
Melograno
Israele si considerava un popolo eletto, scelto da Dio in mezzo agli altri popoli.
Alcuni aggiungevano: per svelare al mondo il vero volto di Dio.
I rabbini dicevano che in un giardino di alberi che non avevano prodotto alcun frutto, il padrone trovò un unico melograno, ma che questi era talmente dolce che, per merito suo, decise di salvare tutti gli alberi.
Ma questa particolarità, almeno nei primi secoli, si era trasformata in Israele in una chiusura ossessiva: nessuna alleanza con altri popoli era possibile, nessun matrimonio misto era autorizzato per non contaminare il popolo. fu l’esilio in Babilonia a cambiare prospettiva: gli ebrei prigionieri in quella terra videro che anche i pagani avevano dei valori morali e che le loro credenze religiose portavano in sé qualcosa di positivo che, addirittura, finì con l’influenzare l’evoluzione della fede ebraica.
Il profeta che incontriamo oggi nella prima lettura, un o dei tre che scrisse il rotolo di Isaia, è uno di coloro che superò la mentalità ristretta del popolo e profetizza: ogni pagano avrà accesso al tempio.
Anche ai tempi di Gesù la situazione era simile: da una parte una società meticcia era dominante in Israele, dall’altra forti spinte conservatrici arroccavano la fede ebraica su posizioni difensive.
I primi cristiani dovettero litigare non poco per capire quale fosse la volontà di Gesù: rivolgersi alle sole pecore di Israele, come anch’egli aveva fatto, o aprirsi ai pagani, come sembrava indicare una serie di suoi atteggiamenti?
Il confronto fu aspro ma, grazie allo Spirito, alla cocciutaggine di san Paolo e al buon senso, si capì che il cristianesimo era rivolto all’intera umanità.
Meno male!
Cagne
In questo contesto leggiamo oggi un imbarazzante vangelo in cui Gesù tratta duramente una donna cananea, non soltanto straniera, ma appartenente a uno dei popoli storicamente ostili agli ebrei. Gesù è sgradevole nel suo rifiuto, insultante: prima non le rivolge la parola, poi dice di essere venuto solo per il popolo di Israele, infine apostrofa la donna con il titolo dispregiativo di “cane”. Mamma mia! Gesù è un gran maleducato? Un lunatico che non vuole essere disturbato? Eppure alla risposta della cananea Gesù si scioglie, le rivolge un complimento che mai aveva rivolto ad un israelita! È grande la sua fede, grande perché ha superato la prova.
Conversioni
È come noi, la cananea. Non è una discepola, non le importa molto di chi sia Gesù, di cosa faccia, di cosa parli. Ha un grave problema e Gesù, dicono, potrebbe risolverlo. Cosa serve di più? È insistente, come si fa con le divinità, con i guru. Rispettosa e zuccherosa, per blandire, per convincere.
Come facciamo noi quando, tiepidi e scostanti, ci troviamo di fronte ad un grave problema e, subito, diventiamo fervorosi: sgraniamo rosari, promettiamo pellegrinaggi, accendiamo ceri votivi per convincere la distratta divinità ad occuparsi di noi. Ed è lì, in quel momento, che Dio tace.
Perché mai dovrebbe occuparsi di noi? Deve prima occuparsi dei suoi figli! Dei suoi discepoli! La provocazione di Gesù è un pieno schiaffo alla cananea. E lei che fa? Io mi sarei offeso, me ne sarei andato bestemmiando e maledicendo quell’arrogante profeta. La donna no, riflette. Ha ragione, certo. È proprio un cane nel chiedere un favore senza farsi mai vedere.
Ha ragione, il Maestro. Ma a volte anche i cani possono leccare le briciole che cadono dalla tavola dei figli. Sorride, ora, Gesù. Questa donna ha capito.
La Parola di oggi ci insegna che Dio vuole dei figli, dei discepoli, non dei devoti che ricorrono a lui solo quando sono in difficoltà! Il nostro Do non è un potente guru da blandire, ma un pastore che sa dove condurci! La Parola di oggi ci guarisce dalle derive xenofobe che aleggiano nella nostra Europa e nella nostra Italia e rimette le cose al proprio ordine; problema non facile da affrontare, certo, ma che va comunque dibattuto dal punto di vista della Scrittura: tutti siamo stranieri davanti a Dio.
E chi sa che la nostra testimonianza di fedeltà e di pazienza, come lo è quella di Israele, come lo è quella di Gesù, non diventi per il fratello non credente stimolo alla riflessione e all’accoglienza del Rabbi che ci ha cambiato il cuore.
20/08/2014
24 agosto 2014 - XXI Domenica del Tempo Ordinario
20/08/2014
24 agosto 2014
XXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Is 22,19-23 / Sal 137 / Rm 11,33-36 / Mt 16,13-20
Questa domenica siamo chiamati a rispondere ad una domanda che penso dovremmo farci ogni volta che entriamo in una chiesa: chi è veramente Gesù per me?
Eppure penso che non sia questo il centro della messa di oggi: secondo me, come dice la colletta all'inizio, lo scopo è diventare pietre vive che sono chiamate a costruire la chiesa di Gesù. Ma andiamo per gradi.
Gesù aveva mandato i suoi a fare i missionari, normalmente loro si occupavano solo della "logistica", gli aveva anche concesso di fare miracoli di guarigione per confermare la loro parola; è al loro ritorno che gli chiede cosa pensava la gente; è interessante che Gesù non pensa a livello catechistico, il suo primo obiettivo non è quello di dare le risposte giuste, ma di far fare l'esperienza di quelle verità, tale che diventino sapienza del cuore e della vita, oltre che dell'intelligenza. Non erano bastati tre anni di discorsi (discorsi che facevano convertire anche i sassi...), tantomeno tre anni di miracoli di tutti i tipi, non era ancora sufficiente: era necessario che sperimentassero sulla loro pelle che Gesù è il messia, che è venuto a salvarci non dandoci regole nuove, ma un cuore nuovo trasformato dallo Spirito Santo. E di fatti l'esperienza non è scelta a caso: è andare dai fratelli ed annunciare il Regno, non solo a dire che il Regno è vicino, ma è essere testimoni della sua presenza efficace, al punto di essere diventati capaci di fare miracoli. Allora direi che un primo spunto del vangelo di oggi è questo: io credo in Gesù perché ho fatto esperienza di Lui o perché mi ricordo qualcosa del catechismo di prima comunione?
Per fare esperienza di Dio (un canzone diceva che per fare un albero ci vuole il seme...) ci vuole la disponibilità a sporcarsi le mani, solo così la voce che chiama non è la convocazione alle armi ma la voce amorevole che dall'eternità sta al lavoro perché io possa diventare un uomo / una donna secondo il cuore di Dio, felice e capace di dare felicità, una persona trasparente all'azione di Dio che è benigno e amante della vita. Se, al contrario, ho paura di mettermi in gioco, con 100 ottime scuse cercherò sempre di evitare di ascoltare Dio, cercherò di giustificarmi in ogni modo, magari facendo ogni bene possibile (di quello che costa poco), dicendomi che intanto questo può bastare perché mica sono santo, sono solo un povero peccatore, mica posso fare tutto io...
Il brano non ci dice quanta paura avessero avuto i discepoli nell'andare, ci dice solo che vanno: guardate che questa è l'obbedienza della fede. Non si obbedisce come il soldato col generale, perfetto fuori ma forse dentro in totale disaccordo, ma si obbedisce quando ci si cala nella propria vita sapendo che quello è il campo dove è nascosto il tesoro (il vangelo di qualche domenica fa), e che questo cammino lo facciamo con Lui e per Lui.
Allora ci potremo confrontare anche con quello che più ci fa difficoltà perché siamo certi che Gesù è con noi non solo per salvarci ma per trasformare noi in occasione di salvezza per gli altri: questa è la fede che aggiusta le famiglie (le montagne da spostare in confronto sono una passeggiata), che dà la forza di perdonare e di camminare insieme verso la riconciliazione, che ci fa lavorare per il bene comune invece di stare all'angoletto arrabbiati e in guerra con tutti.
Gli apostoli prima devono rispondere alla domanda su cosa avesse capito la gente, cioè tutti quelli che avevano sentito qualcosa circa Gesù, quindi era chiaro che avessero idee vaghe e confuse anche se qualcosa lo avevano fiutato; la domanda tuttavia vera è quella fatta a loro, che avevano tutti i pezzi del puzzle, e questo è il secondo spunto: sono capace di leggere tutti i segni che Dio ha seminato nella mia vita, cioè ho riconosciuto (e poi non ho dimenticato subito dopo) i momenti di salvezza, le volte che Gesù mi ha salvato? Guardate che salvezza significa ogni volta che la nostra vita era in pericolo (anche la salute? Certo!) ma anche l'anima, le scelte, le volte che stavamo per perdere tutto con scelte sbagliate, le volte che gli abbiamo chiesto aiuto e ci ha aiutato, e anche le volte che ci ha aiutato contro il nostro volere, quando persone a noi care sono state protette, ecc.
In poche parole: sono capace di magnificare (con Maria che abbiamo festeggiato da poco) Dio e con un magnificat che sia frutto di una vita vissuta con Lui?
Quando Gesù gli fa la domanda risponde Pietro per tutti, perché un po' ha il carattere spavaldo, perché ha le idee chiare, perché è un impulsivo: sì, per tutto questo ma soprattutto perché è stato onesto con se stesso e con Dio, ha avuto il coraggio di non chiudere gli occhi davanti a quello che vedeva e viveva, e in un cuore così lo Spirito santo fa capolavori "...Tu sei il Cristo", tradotto: "tu sei il mio salvatore mandato da Dio in persona e io credo in te e mi affido a te". Questa è la fede.
Non servono lauree in teologia o studi complicati; prima di tutto bisogna avere il coraggio di tenere aperti gli occhi, la mente e il cuore a quello che Dio sta facendo (è lo stile di Maria) e lasciarsi guidare dallo Spirito Santo.
Ma allora è solo un'esperienza interiore? Lo Spirito Santo continua ad agire in noi direttamente (intuizioni della mente e moti del cuore) ma anche con quegli strumenti che abbiamo davanti agli occhi e che con tanta leggerezza scartiamo: la Bibbia, la chiesa, la testimonianza dei santi, gli insegnamenti che ci vengono offerti, la nostra stessa razionalità che, usata con onestà, non può non aprirci a domande e riflessioni che immediatamente ci innalzano verso l'assoluto.
Noi pensiamo che tocca a noi la fatica di trovare Dio, quasi che fosse un ricercato che scappa e si nasconde: tutto sbagliato! È Gesù stesso che ci viene incontro; se non facesse lui il grosso staremmo freschi! Un testo per tutti è la prima lettera di Giovanni che lo ripete in continuazione: è Dio che ci ha amati per primo e che ci rende, giorno dopo giorno, capaci di accogliere e di ricambiare questo amore.
Gente così è forte e umile, forte dell'amore di Cristo ed umile perché sa che non gli appartiene ma che ogni giorno lo riceve, esattamente come la manna nel deserto. È gente così che è invulnerabile agli attacchi del maligno che prova sempre a staccarci da Dio con tutte le menzogne possibili, tutte che partono dal giardino dell'Eden: "vedi che non ti vuole bene?" Cristo ha smascherato l'inganno una volta per tutte: per questo le porte degli inferi non potranno prevalere: perché la menzogna è stata svelata, il potere che aveva è stato svuotato dall'interno, la vera fatica che ci rimane da affrontare è vivere da uomini liberi!
Questa è la chiesa: il luogo geometrico degli uomini che Gesù salva e che imparano ogni giorno a vivere insieme l'esperienza della salvezza, quindi non è il paradiso, diciamo che sono le "prove tecniche di trasmissione"!
Ultimo spunto: perché Gesù ordina di non dire a nessuno che Lui è il messia? Forse proprio per evitare che ognuno pensasse che il paradiso fosse dietro l'angolo (che in realtà ci starebbe pure) ma senza avere iniziato il lavoro su sé stessi. Mi spiego meglio: se vi dicessi che in paradiso si è felici della felicità degli altri e non della propria, come la prendereste? Gesù ci ha insegnato che c'è più gioia nel dare che nel ricevere, che solo quando ci doniamo siamo realizzati...
Capito perché dice di non sbandierarlo ai 4 venti? perché ci vuole portare piano piano ad aprire il cuore e a non avere paura di essere liberi e felici: "beato te Simone perché il Padre te lo ha rivelato".
Questo è essere pietre vive che servono a costruire un mondo nuovo, il Regno di Dio.
Pietro è il primo, a lui è rivolta la benedizione-profezia di essere il baluardo: anche se rimaneva peccatore ed esposto all'errore. La fede non è avere le risposte in tasca (allora sì che non si capirebbero più gli eventuali ulteriori errori) ma è stare in relazione continua e vitale con Gesù che mi guida, che progressivamente mi salva, perdono dopo perdono, grazia dopo grazia, fino a farmi capace di tanto amore: riusciremo a non scappare via e a non rovinare questo capolavoro?
31/08/2014
31 agosto 2014 - XXII Domenica del Tempo Ordinari
31/08/2014
31 agosto 2014
XXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Ger 20,7-9 / Sal 62 / Rm 12,1-2 / Mt 16,21-27
In questa strana estate assistiamo, annichiliti, alla violenza di chi, in nome di Dio, uccide chi la pensa diversamente. Le notizie che ci giungono dalla piana di Mosul, dove decine di migliaia di cristiani devono fuggire dalla furia dell’Isis, ci stringono il cuore e ci sconcertano. Perché Dio non interviene? Perché non protegge gli inermi dalla furia cieca della follia omicida?
Come vorremmo un Dio interventista!
L’idea di un Messia vittorioso e combattivo, che avrebbe reso giustizia dell’oppressione del popolo, è l’orizzonte in cui si situa l’episodio evangelico di oggi, continuazione di quello di domenica scorsa.
Pietro riconosce in Gesù il Messia. Gesù, però, non vuole creare illusioni.
Pietro ha faticato, e non poco, a dichiarare che il falegname di Nazareth è il Messia atteso da Israele.
Troppo diverso il suo modo di servire il Regno, troppo audace la sua predicazione, troppo innovativa la sua idea di Dio per poterlo identificare con il nuovo e glorioso re Davide che avrebbe ricostituito la gloria del passato Israele e che tutti aspettavano!
Pietro aveva riconosciuto in Gesù il Cristo e Gesù lo aveva riconosciuto come pietra da costruzione, come pietra viva fondata sulla fede, la pietra che avrebbe sostenuto altri fratelli nella fede.
Ora, invece, Pietro diventa pietra di inciampo, pietra di scandalo.
Brutta storia.
Un altro Messia
Ora che Pietro lo ha riconosciuto come Messia, Gesù spiega a tutti cosa significa per lui essere “messia”.
Nessuna gloria, nessun potere, nessun compromesso nel suo essere messia. Gesù dice di essere disposto ad andare fino in fondo nella sua scelta, è disposto a morire piuttosto che rinnegare il suo volto di Dio. E così sarà.
I discepoli restano interdetti: fino a poco tempo prima avevano ragionato su chi sarebbe stato messo a capo del nuovo Regno, ora Gesù parla di dolore e di morte.
Pietro lo prende da parte (è pur sempre il papa!) e lo invita a cambiare linguaggio a non scoraggiare il morale delle truppe. Anche lui, come spesso facciamo noi, vuole insegnare a Dio come si fa a fare Dio.
E Gesù reagisce, duramente: cambia mentalità, Pietro, diventa discepolo.
Troppe volte invece di seguire il Signore lo precediamo.
Siamo noi ad indicargli al strada, non seguiamo più la strada che egli ci indica.
Siamo noi a suggerirgli le soluzioni ai problemi, non ci fidiamo più della sua presenza, della sua azione.
Pretendiamo che sia Dio a diventare nostro discepolo.
Geremia, nella prima lettura, si lamenta con Dio.
Lui voleva fare il profeta di buone notizie, è diventato un rompiscatole insostenibile, tutti lo odiamo, anche i suoi famigliari. Geremia vorrebbe lasciare (come biasimarlo?), ma riflette e ritorna alla fiamma che l’ha sedotto.
Quando mettiamo noi stessi al posto di Dio, della fiamma, facciamo come Pietro e ci allontaniamo dal cammino.
Non chiederti a che punto sei nel tuo percorso interiore.
Chiediti se sei ancora dietro a Cristo.
A tutti
Gesù insiste, ora, si rivolge a tutti, a noi.
Non blandisce le persone, non cerca facili discepoli, non seduce, non ama il marketing.
La sua proposta è cruda, diretta, atroce, insostenibile.
Pronuncia tre imperativi che risuonano come una sfida.
Vuoi essere mio discepolo?
Rinnega te stesso. Cioè non mettere te stesso al centro dell’universo, non voler emergere a tutti i costi, non fare come tutti che, nel mondo, sgomitano per essere visti e notati. Sei unico, sei prezioso sei un capolavoro, perché devi combattere per dimostrarlo agli altri? Il discepolo, come il Maestro, prende a cuore la felicità di chi gli sta accanto, guarda oltre, mette la sua vita in gioco perché tutti possano appartenere al Regno. Non mettere sempre te stesso al centro, metti il sogno di Dio al centro, con libertà, da adulto, da uomo nuovo.
Prendi la tua croce. Cioè non avere paura di amare fino a soffrire, di amare fino a perderti. Come Geremia che non riesce a staccarsi dall’amore bruciante di Dio nonostante le tante delusioni che sta vivendo. Purtroppo una certa devozione spicciola ha finito con lo stravolgere la simbologia della croce: nata come misura dell’amore di Dio, è divenuta l’emblema del dolore. Dio non ama il dolore, sia chiaro, né lo esige (e ci mancherebbe!) ma, a volte, amare significa anche sopportare e soffrire.
E Gesù ne sa qualcosa.
Seguimi. Condividi la scelta di Gesù, il suo sogno, il suo progetto. Dio è presente e si manifesta a noi, orienta le nostre scelte con equilibrio e intelligenza, ascoltando la sua Parola, lasciandoci plasmare dalla sua voce interiore. Seguire Gesù significa cambiare orizzonte, conoscere la Parola a lasciare che sia la fede a motivare e cambiare le nostre scelte, convertire i nostri cuori.
Siamo per sempre discepoli, per sempre cercatori, mai veramente arrivati.
Nuove logiche, nuovo Dio
Avete perfettamente ragione: come si fa a seguire un Dio così? Infatti lentamente ed inesorabilmente abbiamo annacquato questa pagina, l’abbiamo resa accettabile, possibile, ragionevole. Ma l’amore di Dio ha ben poco di ragionevole e, spesso, indica vette altissime per ribadire che siamo capaci, assieme a lui, di diventare discepoli.
Vangelo esigente, alla fine di un’estate fredda, almeno qui dalle mie parti.
Ma un vangelo che ci spalanca al sogno di Dio.
07/09/2014
7 settembre 2014 - XXIII Domenica del Tempo Ordina
07/09/2014
7 settembre 2014
XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Ez 33,1.7-9 / Sal 94 / Rm 13,8-10 / Mt 18,15-20
Violenza e perdono
Da qualche settimana sui social network che frequento condivido articoli e riflessioni sulla spinosissima questione del comportamento del cristiano davanti alla violenza.
Le crude immagini che ci giungono dall’Iraq e dalla Libia, dall’avanzata del fondamentalismo islamico ci inquieta e ci invita a superare la reazione emotiva per riflettere: come contrapporsi al male?
Anche Papa Francesco, pur essendo artefice di incontri di preghiera, e richiamando tutti al dialogo, ha ammesso, come da tradizione cristiana, che l’uso della forza, quando aggrediti, è legittimo.
La discussione è aperta e molto concreta.
Per migliaia di uomini e donne, per migliaia di bambini cristiani, è il tempo del martirio.
Oltre ad accompagnare nella preghiera questi eventi, siamo chiamati ad orientare la nostra vita più decisamente verso il Regno. E a riflettere sull’origine della violenza e del male, anche dentro noi stessi.
A parlare del peccato che abita il cuore di ogni essere umano. Il vangelo odierno, in questo, ci viene incontro.
Peccato e perdono
Alcuni penseranno che, almeno riguardo al peccato, noi cattolici siamo molto preparati.
Abbiamo passato secoli a vedere il peccato ovunque, lo abbiamo analizzato, studiato, sezionato, come si può dire che non conosciamo a fondo il peccato? Anzi, molti, ancora oggi, identificato il cristianesimo come una religione morale, che ci dice cosa è il bene e cosa è il male e la Chiesa come un’autorevole istituzione che ha il principale il compito, in questi tempi confusi, di ribadire cosa è peccato.
Una società non educata alla libertà diventa una società anarchica, che rivendica la libertà di provare ogni emozione, che fa diventare la coscienza del singolo l’unico metro di giudizio, diventando schiava delle proprie emozioni.
Oggi, ad essere onesti, per sentirsi veramente colpevoli bisogna essere almeno serial-killer!
Tutto il resto: l’egoismo, la corruzione, il pettegolezzo, la violenza verbale, la calunnia, la pornografia, sono manifestazioni della libertà personale.
Molti ancora pensano che un atto sia peccaminoso perché così Dio ha stabilito.
Sbagliato: nella Bibbia si dice che un peccato è male perché fa del male.
Il peccato non è un’offesa nei confronti di Dio ma nei confronti di ciò che potremmo diventare: un capolavoro. Dio non punisce il peccatore: il peccato ci punisce, facendoci precipitare in un abisso di falsa felicità.
Ma, certo, per vedere le ombre occorre che ci si esponga alla luce della Parola.
Perdono
Nel cuore dell’uomo alberga la falsa idea di un Dio che punisce, che giudica, che controlla.
Gesù è venuto a liberarci da questa immagine demoniaca di Dio raccontandoci il volto di un Padre che desidera fortemente il perdono.
Perdono che è dono gratuito, possibilità offerta, occasione di rinascita.
E il discepolo condivide questo perdono.
Perdono che, nella miope prospettiva odierna, è visto come una debolezza.
Quanto è difficile perdonare! Ci vuole del tempo, una forte fede, una profonda conversione per perdonare chi mi ha fatto del male!
Quanto, in televisione, vedo un giornalista (idiota) che si avvicina al familiare di una vittima chiedendo se perdona l’assassino del figlio mi sento salire la rabbia: è una cosa seria il perdono! Ci vuole tempo e pazienza per costruirlo, non è un’emozione buonista, ma una adulta scelta sanguinante!
È possibile perdonare, dice il Vangelo.
E Matteo, oggi, dice come si gestisce il perdono all’interno della comunità.
Amore nella Chiesa
La prassi proposta da Gesù è piena zeppa di buon senso: discrezione, umiltà, delicatezza verso chi sbaglia, lasciandogli il tempo di riflettere, poi l’intervento di qualche fratello, infine della comunità.
Quanto siamo lontano da questa prassi evangelica!
Ci incontriamo ogni domenica (quando va bene), spesso indifferenti gli uni gli altri, a parte il gruppuscolo dei devoti al parroco, pronti a notare quello che non va nella comunità, un po’ scocciati di dover sottostare a questo rito settimanale che è la Messa.
Non solo non ci interessano gli affari degli altri, ma mai e poi mai ci verrebbe in mente di occuparci della perdita delle fede di chi ci sta accanto!
Altri, invece, se parlano degli errori di qualcuno, ne sparlano, spesso con sadica soddisfazione, senza compassione o delicatezza e più si sentono devoti e più sono feroci.
Se noi, discepoli del Misericordioso, non sappiamo avere misericordia, chi mai ne sarà capace?
Se coloro che hanno avuto il cuore riempito dalla nostalgia di Dio non sanno cogliere dietro ogni errore un percorso verso la pienezza, chi ne sarà capace?
Il criterio del Vangelo è pieno di amorevole buon senso: ti voglio bene al punto che, dopo aver pregato, ti chiedo di interrogarti sui tuoi atteggiamenti.
La franchezza evangelica è un modo concreto di amare, di essere solidali, anche con durezza, come ha fatto Gesù con la Cananea e con Pietro.
Nelle nostre comunità abbiamo bisogno di scoprire questo modo concreto di intervenire, di prendere a cuore il destino dei fratelli, senza nasconderci dietro un ipotetico rispetto che non ci interpella e lascia il fratello nella propria inquietudine.
Non è ciò che Dio chiede ai suoi discepoli: essere profeti di un modo diverso di amare e di perdonare?
Se davvero il Rabbì ci ha cambiato la vita, ha cambiato anche il modo di vedere gli altri e di occuparmi degli altri. Proviamo?
11/09/2014
14 settembre 2014 - Esaltazione della Santa Croce
11/09/2014
14 settembre 2014
Esaltazione della Santa Croce
Nm 21,4-9 / Sal 77 / Fil 2,6-11 / Gv 3,13-17
Un amore da esaltare
Avete ragione, scusate.
Già solo la titolazione di questa festa che, quest’anno, sostituisce la domenica ci infastidisce.
Come si fa ad esaltare la croce? Il dolore non è mai da esaltare, né, è bene ribadirlo, ha in sé una valore positivo.
Davanti al dolore dell’innocente, davanti alla sofferenza inattesa, davanti ai tanti volti di persone che hanno avuto la vita stravolta dalla tragedia di una malattia o di un lutto, le parole diventano fragili e l’annuncio del Vangelo si fa zoppicante.
L’unica vera obiezione all’esistenza di un Dio buono, così come Gesù è venuto a svelare, è il dolore dell’innocente.
Molti dei dolori che viviamo hanno la loro origine nell’uso sbagliato della nostra libertà o nella fragilità della condizione umana. Ma davanti ad un bambino che muore anche il più saldo dei credenti vacilla.
Al discepolo il dolore non è evitato, e non cercate nella Bibbia una risposta chiara al mistero del dolore (Ma davvero cerchiamo una risposta? Noi vogliamo non soffrire, non delle risposte!).
Non troviamo risposte al dolore, troviamo un Dio che prende su di sé il dolore del mondo.
E lo redime.
La regina pellegrina
Quella di oggi è una festa nata da un fatto storico: il ritrovamento da parte della regina Elena, madre dell’imperatore Costantino, primo imperatore convertitosi alla fede (così pare…), del luogo della crocifissione a Gerusalemme.
Quel luogo fu conservato con devozione dai discepoli durante tre secoli, malgrado Roma imperiale avesse fatto di tutto per farlo dimenticare e lì, dopo lo scavo del sepolcro, fu ritrovata dalla regina Elena in una cisterna la presunta croce di Gesù con il titulum crucis.
Grandissimo scalpore suscitò quella scoperta e le comunità cristiane si ritrovarono in un ventennio dall’essere perseguitate al vedere portata la croce trionfalmente a Costantinopoli.
Per noi oggi, giunge l’occasione di una seria riflessione sulla croce.
Dio non ama la sofferenza
La croce non è da esaltare, dicevamo, la sofferenza non è mai gradita a Dio, Dio non gradisce il sacrificio fine a se stesso.
Lo dico per scongiurare la tragica inclinazione all’autolesionismo tipica del cattolicesimo, inclinazione che crogiola il cristiano nel proprio dolore pensando che questo lo avvicini a Dio, inclinazione che produce molti danni.
La nostra è una religione che rischia di fermarsi al venerdì santo, perché tutti abbiamo una sofferenza da condividere e ci piace l’idea che anche Dio abbia sofferto come noi. Ma la nostra fede non resta ferma al calvario, sale al sepolcro.
E lo trova vuoto.
La felicità cristiana è una tristezza superata, una croce abbandonata perché ormai inutile e questa croce, ormai vuota, viene esaltata.
È la croce gloriosa e inutile che oggi esaltiamo. Non quella sanguinante cui ancora vengono appesi mille e mille cristi sanguinanti e morenti.
Una croce che ha portato Dio, che è diventata il trono da cui ha manifestato definitivamente la sua identità.
La croce non è il segno della sofferenza di Dio, ma del suo amore.
La croce è epifania della serietà del suo bene per ciascuno di noi.
Fino a questo punto ha voluto amarci, perché altro è usare dolci e consolanti parole, altro appenderle a tre chiodi, sospese fra il cielo e la terra.
Il paradosso dell’amore
La croce è il paradosso finale di Dio, la sua ammissione di sconfitta, la sua dichiarazione di arrendevolezza: poiché ci ama lo possiamo crocifiggere.
Esaltare la croce significa esaltare l’amore, esaltare la croce significa spalancare il cuore all’adorazione e allo stupore.
Innalzato sulla croce (Giovanni non usa mai la parola “crocifisso” ma “osteso” cioè mostrato) Gesù attira tutti a sé.
Davanti a Dio nudo, sfigurato, così irriconoscibile da necessitare di una didascalia per riconoscerlo, possiamo scegliere: cadere nella disperazione o ai piedi della croce.
Dio – ormai – è evidente, abissalmente lontano dalla caricatura che ne facciamo; egli è lì, donato per sempre.
E al discepolo è chiesto di portare la sua croce.
Ho scoperto che, spesso, la croce sono gli altri a procurarcela. O noi stessi.
E noi ci svegliamo ogni mattina e la carteggiamo e la pialliamo.
Evitiamo le sofferenze inutili, abbandoniamo i dolori che scaturiscono da un’errata visione del mondo!
Portare la propria croce significa portare l’amore nella vita, fino ad esserne crocifissi.
La croce non è sinonimo di dolore ma di dono, dono adulto, virile, non melenso né affettato.
Dio ci ha presi sul serio, rischiando di essere uno dei tanti giustiziati della storia.
Questa festa, allora, è per noi l’occasione di posare lo sguardo sulla misura dell’amore di un Dio che muore per amore, senza eccessi, senza compatimenti, libero di donarsi, osteso, amici, osteso.
Questo, ora, è il volto di Dio.
Cristi
Allora ti rispondo, amico che scrivi urlando a Dio il tuo dolore: alla fine della tua acida preghiera non troverai un muro di gomma, né un volto indurito ma – semplicemente – un Dio che muore con te.
E potrai scegliere di bestemmiarlo e accusarlo ancora della nostra fatica oppure – che egli te lo conceda – restare stupito come quel ladro crocifisso che non sapeva capacitarsi di tanta follia d’amore.
Tutto qui, tutto qui: la croce è l’unità di misura dell’amore di Dio.
Sì, amici, c’è di che celebrare, c’è di che esaltare, c’è di che esultare
21/09/2014
21 settembre 2014 - XXV Domenica del Tempo Ordina
21/09/2014
21 settembre 2014
XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Is 55,6-9 / Sal 144 / Fil 1,20-24.27 / Mt 20,1-16
Eccoci qui, nella prima domenica di autunno, a confrontarci con una delle parabole più incredibili raccontate da Gesù.
Eccoci, mentre tutto riprende con ritmo incalzante: il lavoro, la scuola, la vita parrocchiale ordinaria, le fatiche e le preoccupazioni quotidiane. L'estate con le sue vacanze (per chi è riuscito a farle), sembra un ricordo lontano.
E, in questa ripresa, ci si mette anche il Vangelo di oggi che fa "saltare" ogni logica di giustizia umana, soprattutto in questi tempi in cui per molti il "cercare lavoro" sembra un'utopia, grande quanto il rischio di perdere il posto per chi già ce l'ha.
Perché la parabola di oggi ci parla di lavoro, di stipendio, di assunzione ad ore, di ricompensa, ma con metodi e intese che non corrispondono alla giustizia. Ma, allo stesso tempo c'è una parola che brilla luminosa oltre il diritto e le rivendicazione: la parola "bontà".
"Io sono buono".
In mezzo alle chiacchiere e alle critiche nei confronti del padrone - umanamente giustificabili - c'è quella parola: "Io sono buono" che scompiglia ogni logica umana
Perché la parabola, come ogni parabola di Gesù, rimanda sempre a qualcos'altro, occorre interpretarla, andare al di là di un semplice racconto.
Dunque, ancora una volta il Dio di Gesù ci sconcerta: "le sue vie - come ci ha ricordato il profeta Isaia nella prima Lettura - non sono le nostre vie, le sovrastano" quanto la croce e il dono sovrasta la nostra logica.
È chiaro che istintivamente ognuno di noi si senta solidale con gli operai della prima ora: non è giusto dare la medesima paga a chi lavora molto e a chi poco. Non è giusto, se al centro di tutto metto il denaro e le leggi dell'economia.
Ma se mi lascio provocare da questa parabola, se, come Dio, al centro metto non il denaro, ma l'uomo; non la produttività, ma la persona; allora non posso mormorare contro chi intende assicurare la vita di tutti. La parabola c'invita a conquistare lo sguardo di Dio.
Se infatti entriamo nella logica di Dio ecco che si apre una prospettiva nuova: Dio chiama a lavorare nella sua Vigna, non come un datore di lavoro distaccato dai suoi operai, ma come uno che dà agli uomini i frutti stessi di quella vigna e che rende gli uomini partecipi della sua opera di redenzione. Già il lavorare nella vigna del Signore è la ricompensa!
Dio dà all'uomo tutto se stesso in un dono gratuito, continuo, fedele, senza limiti; dà tutto il suo amore. E chiede in cambio "solo" l'accettazione del dono. La risposta decisa alla Sua chiamata, il "rimboccarsi le maniche" per mettersi all'opera anche per un'ora soltanto della vita, può rendere tutta una vita finalmente redenta! Pensiamo a quell'intensissimo momento di amore e di fede che ha fatto, dell’ultimo" ladrone crocifisso, un "primo" nel Regno.
Nessun uomo, in un certo senso, è confrontabile con un altro. Ciascuno ha la sua chiamata, la sua ora, la sua storia.
Ognuno è il "preferito" al quale Dio destina il suo denaro di salvezza, cioè l'intera paga, tutto se stesso.
In questa avventura di amore infinito che è la storia della nostra salvezza, la stonatura più grande, il contrasto più evidente, lo sfregio allo splendore della sua Bontà, è l'invidia che possiamo nutrire per questo dono che va oltre ogni merito, rivelando la misura di Dio.
Cedere all'invidia ha in se stessa la sua punizione, tant'è vero che il libro dei Proverbi definisce l'invidia "una carie delle ossa".
All'invidia si accompagna poi la lamentela, il rincrescimento, quasi, di aver "sopportato il peso della giornata e il caldo", di aver faticato nella vigna di Dio, di aver "dovuto" amare fin dalla prima ora.
Se l'operaio dell'ultima ora lo guardo con bontà, se lo vedo cioè come un amico, non come un rivale, se lo guardo come mio fratello, non come un avversario, allora gioisco con lui della paga piena, faccio festa con mio fratello e ci sentiamo entrambi più ricchi.
È questione di bontà, così difficile da trovare ai giorni nostri, forse anche nella vita delle nostre comunità, dove a volte l'invidia e la chiacchiera, sono mali che feriscono la comunione e scandalizzano il mondo.
Se mi credo lavoratore instancabile della prima ora, "cristiano esemplare", che dà a Dio impegno e fatica, che pretende la ricompensa, allora sono urtato dalla bontà di Dio.
Se invece con umiltà, con verità, mi metto tra gli ultimi operai, tra i "servi inutili", accanto ai peccatori, a Maria Maddalena e al buon ladrone, se conto non sui miei meriti ma sulla bontà di Dio, allora la parabola mi rivela il segreto della speranza: Dio è buono.
È ciò che ha sperimentato Paolo che ai cristiani di Filippi arriva a dire "per me vivere è Cristo e il morire un guadagno".
Allora, "ti dispiace che io sia buono?"
No, non mi dispiace, perché quell'operaio dell'ultima ora sono io, Signore, un po' ozioso, un po' bisognoso. No, non mi dispiace, perché spesso non ho la forza di portare "il peso della giornata e il caldo". Vieni a cercarmi anche se si è fatto tardi.
Non mi dispiace che tu sia buono.
Anzi, sono felice di avere un Dio così, che bussa così contro le pareti strette del mio cuore fariseo, contro la povertà della mia anima perché diventi, finalmente, ricca del suo stesso Amore. Aiutami a riscoprire che il vero guadagno è vivere di Te, morire per Te, e che è impagabile l'onore di lavorare nella tua vigna fin dal mattino.
28/09/2014
28 settembre 2014 - XXVI Domenica del Tempo Or
28/09/2014
28 settembre 2014
XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Ez 18,25-28 / Sal 24 / Fil 2,1-11 / Mt 21,28-32
I figli potrebbero essere quattro. Quello che dice sì e poi non va e quello che dice no e poi va a lavorare nella vigna. Ci potrebbe essere anche il figlio che dice no e non va e quello che dice sì e va. L'unico esempio di quest'ultimo caso è Gesù, mentre del penultimo caso vogliamo sperare che non ci sia nessuno.
Il ripensamento è importante. Permette al figlio prodigo di tornare in vita e passare, dalla condizione di guardiano di porci a quella di fratello e figlio amato. Ripensare è pentirsi, rammaricarsi, convertirsi. Giuda stesso si pentì: anche per lui resta aperta una fessura per scamparla.
L'inizio è sempre del Signore che ci si avvicina e ci manda a lavorare nella vigna, a operare. Tutti uguali: sacerdoti e anziani, pubblicani e prostitute. Tutti racchiusi tra misericordia e conversione. Non ci sono categorie favorite e nessuno è privilegiato; quello che fa la differenza è "l'aver creduto a Giovanni", il profeta dell'appello a cambiar vita. Un altro modo di capire che ciò che conta è andare nella vigna e darsi da fare. E se sono pochi quelli che obbediscono, allora ci soccorre il pentimento a portarci a Lui che ci si fa vicino - lui per primo - ad ogni ora del giorno.
Gesù inizia spesso con una domanda. Anche oggi: "Che ve ne pare?". Vuole portarci a riflettere, cercare, smuoverci. La domanda non riguarda solo lo svolgersi della parabola, ma anche l'esito della storia che vede arrivare prima pubblicani e prostitute. "Che ve ne pare?".
05/10/2014
05 ottobre 2014 - XXVII Domenica del Tempo Ordi
05/10/2014
05 ottobre 2014
XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Is 5,1-7 / Sal 79 / Fil 4,6-9 / Mt 21,33-43
L'uomo dei campi, il nostro Dio contadino, guarda la sua vigna con gli occhi dell'amore e la circonda di cure: che cosa potevo fare di più per te che io non abbia fatto? Canto d'amore di un Dio appassionato, che fa per me ciò che nessuno farà mai. Quale raccolto si attende il Signore? Isaia: Aspettavo giustizia, attendevo rettitudine, non più grida di oppressi, non più sangue! Il frutto che Dio attende è una storia che non generi più oppressi, sangue e ingiustizia, fughe disperate e naufragi.
Nelle vigne è il tempo del raccolto. Per noi lo è ogni giorno: vengono persone, cercano pane, Vangelo, giustizia, coraggio, un raggio di luce. Che cosa trovano in noi? Vino buono o uva acerba? La parabola cammina però verso un orizzonte di amarezza e di violenza. In contrasto con la bassezza dei vignaioli emerge la grandezza del mio Dio contadino ( chiamare uno «contadino» è il più bel complimento che si possa fare a una persona), un Signore che non si arrende, non è mai a corto di meraviglie, non ci molla e ricomincia dopo ogni rifiuto ad assediare il cuore con nuovi Profeti e servitori, e infine con il Figlio.
Costui è l'erede, uccidiamolo e avremo noi l'eredità! La parabola è trasparente: la vigna è Israele, i vignaioli avidi sono le autorità religiose, che uccideranno Gesù come bestemmiatore. Il movente è lo stesso: l'interesse, potere e denaro, tenersi il raccolto e l'eredità! È la voce oscura che grida in ciascuno: sii il più forte, il più furbo, non badare all'onestà, e sarai tu il capo, il ricco, il primo. Questa ubriacatura per il potere e il denaro è l'origine di tutte le vendemmie di sangue della terra.
Cosa farà il padrone? La risposta delle autorità è secondo logica giudiziaria: una vendetta esemplare, nuovi vignaioli, nuovi tributi. La loro idea di giustizia si fonda sull'eliminare chi sbaglia. Gesù non è d'accordo. Lui non parla di far morire, mai; il suo scopo è far fruttificare la vigna: sarà data a un popolo che produca frutti. La storia perenne di amore e tradimenti tra Dio e l'uomo non si concluderà né con un fallimento né con una vendetta, ma con l'offerta di una nuova possibilità: darà la vigna ad altri.
Tra Dio e l'uomo le sconfitte servono solo a far meglio risaltare l'amore di Dio. Il sogno di Dio non è né il tributo finalmente pagato (non ne parla più) né la condanna a una pena esemplare per chi ha sbagliato, ma una vigna, un mondo che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di lacrime, che non sia una guerra perenne per il potere e il denaro, ma che maturi una vendemmia di giustizia e di pace, la rivoluzione della tenerezza, la triplice cura di sé, degli altri e del creato.
12/10/2014
12 ottobre 2014 - XXVIII Domenica del Tempo Ord
12/10/2014
12 ottobre 2014
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Is 25,6-10a / Sal 22 / Fil 4,12-14.19-20 / Mt 22,1-14
Ci è sicuramente capitato di trovarci di fronte un giovane che si innamora o una madre che aspetta un bambino e siamo rimasti stupiti perché il loro volto cambia, diventa più bello e luminoso; non solo, cambia anche il loro modo di guardare la vita e quella degli altri! E' questa l'esperienza in cui Gesù desidera far entrare ogni uomo e in particolare, nel vangelo di oggi, i capi dei sacerdoti e i farisei attraverso l'incontro con lui: Accogliere la bellezza dell’Amore di Dio per lasciarci cambiare il modo di guardare la vita!
Accogliere l'invito e lasciarci cambiare possono essere allora i due movimenti che la Parola di oggi ci dona e nei quali proviamo ad entrare con maggiore profondità:
Accogliere l'invito: E' ormai da qualche domenica che il vangelo di Matteo ci offre racconti di Gesù rivolti a chi oppone resistenza ad accogliere Dio, che svela la sua onnipotenza esercitata esclusivamente nella misericordia, un Dio che si fa vicino a tutti gli uomini, indistintamente, per fargli vivere la dignità di figli di Dio e farli partecipi della salvezza del suo Regno!
E' bello innanzitutto evidenziare l'insistenza di Gesù nel rivolgere il suo invito: Dio non demorde, Dio insiste e fa tutto il possibile e perfino l'impossibile, per svegliare, per raggiungere ogni uomo. Come un genitore premuroso che per far capire al proprio figlio quanto è bella e importante una cosa, la ripete più volte con pazienza amorevole, cambiando magari esempi, tempi e modi per farsi intendere. Gesù fa lo stesso oggi nel suo racconto - così come ce lo presenta l'evangelista Matteo - ed usa l'immagine dell'invito al banchetto di nozze per cercare di scardinare il cuore dei suoi destinatari: Dio è un Padre che svela il suo Amore all'umanità attraverso Gesù che si presenta, non come giudice, ma come sposo che cerca unicamente il bene dell'amata! Accogliere l'amicizia di Gesù nella propria vita è paragonabile alla gioia di un banchetto nuziale a cui ognuno di noi è invitato ad entrare e partecipare. Nella prima lettura abbiamo ascoltato che il "Signore degli eserciti" depone le armi del giudizio e della collera per preparare "un banchetto di grosse vivande, di vini eccellenti e di cibi succulenti". Ora, adesso, questo banchetto è pronto, è disponibile, è consumabile nella nostra vita attraverso Gesù e la sua Pasqua! La nostra vita è affamata di speranza, di senso, di comunione con gli altri, di pace e tutto questo è possibile viverlo ora in Cristo Gesù! Nel racconto che abbiamo ascoltato nel vangelo è sicuramente importante per l'evangelista evidenziare il rifiuto dei primi invitati alle nozze e la reazione violenta del re con il successivo invito rivolto a chiunque, ma ciò che la Parola oggi evidenzia è soprattutto che "la festa di nozze è pronta!" per ogni uomo, per la nostra vita!
Tra poco nella messa, prenderemo, mangeremo e berremo il corpo e sangue di Cristo offerto per tutti in remissione dei peccati: è questa la comunione di vita e di amore con la Pasqua di Cristo, il nostro banchetto a cui siamo chiamati.
Da qui allora il secondo movimento della Parola di oggi: lasciarci cambiare! Nella seconda parte del racconto Gesù narra di un invitato sorpreso dal re senza "abito nuziale" e, per questo, gettato fuori nelle tenebre. Sembra quasi una contraddizione all'invito precedente che il re aveva esteso a tutti "cattivi e buoni". E' bene quindi evidenziare che l'invito a questo banchetto, l'amore di Dio verso ognuno di noi è totalmente gratuito.
L'amicizia con Gesù e la sua misericordia sono doni del tutto gratuiti, aperti a tutti, senza limiti di tempo, in nessun modo meritati e senza condizioni se non quello di aderirvi con la nostra libertà.
L'amore di Dio non si conquista attraverso uno sforzo moralistico e volontaristico, ma con l'incontro di Cristo e il sentirci continuamente amati e perdonati da Lui, questo sicuramente cambia il nostro modo di guardare noi stessi, gli altri e gli avvenimenti della nostra vita! Significa davvero entrare nella nos tra vita con un abito nuovo, un abito "nuziale"!
E' la resistenza dei farisei al tempo di Gesù, ed anche della comunità cristiana a cui scrive Matteo, dove la novità di Cristo poteva rischiare di venire " barattata" con una interpretazione della fede "legalistica" e "conservatrice" oppure "pilotata" da una mentalità di autosufficienza fondata sulle dalle proprie certezze e sicurezze prettamente umane! La novità di Cristo è l'esperienza che ci invita a rivestire ogni relazione della nostra vita con l'abito della sua Pasqua e del suo Spirito e cambiare in nome della sola forza più debole ma più irresistibile che si conosca: il suo amore! Incontrare l 'amore di Dio, seguire Cristo allora non ci esonera dall'impegno fattivo, fatto di scelte e gesti concreti, ma ci apre davvero all'esercizio della "responsabilità “e del "prendersi cura", che può essere vissuto pienamente soltanto dentro una logica di libertà e di amore e non di timore e di imposizione!
A proposito dell'immagine della "veste nuziale" utilizzata nel vangelo vorrei concludere con una provocazione che sia anche un augurio per tutte le comunità all'inizio del nuovo anno pastorale: "Non è più semplice vedere nell'uomo privo della veste nuziale qualcuno che è entrato, ma non vuol credere di essere alla festa di nozze? Voglio dire uno di quei cristiani i quali non riescono a credere che il Regno è un banchetto nuziale e quindi si vestono come per un funerale. Un uomo credente, ma rivestito di severità, di austerità, di tristezza, di silenzio, dove invece occorre vestirsi di gioia e di speranza. Uno che crede di dover portare tutta la tristezza del mondo invece di portare il sorriso di Dio al mondo. Perciò mi domando se il Cristo presente al momento delle nostre sante cene, guardando i nostri volti tesi e i nostri occhi spenti, non senta di nuovo il desiderio di dirci: - Come mai sei entrato qui senza la veste nuziale? La tua gioia, la tua pace, la tua speranza, in quale guardaroba le hai lasciate?
19/10/2014
19 ottobre 2014 - XXIX Domenica del Tempo Ordin
19/10/2014
19 ottobre 2014
XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Is 45,1.4-6 / Sal 95 / 1Ts 1,1-5 / Mt 22,15-21
I farisei e gli erodiani dicono di Gesù che "non guardi in faccia a nessuno" e invece il Signore guarda in profondità e fino in fondo il mistero di ogni persona; anche quando evita di entrare in argomenti giuridici o politici, le sue parole ripropongono incessantemente il tema del rapporto tra Cesare e Dio.
A partire dall'immagine e dall'iscrizione sulla moneta, si comprende come non sia poco quello che bisogna riconsegnare a Cesare; anzi, è moltissimo! Eppure è infinitamente di più quello che dobbiamo riconsegnare a Dio! A partire dalla nostra stessa persona, che proprio a motivo di Gesù, porta in sé l'immagine di Dio, fino al più piccolo e semplice gesto. Sempre siamo dinanzi a "quello che è di Dio"!
Tra l'iniziale andare dei Farisei e il conclusivo loro andarsene, in mezzo c'è l'incontro col Signore. Per i farisei non fu di salvezza, perché erano andati da Lui per metterlo alla prova, per tentarlo. Nei suoi confronti tutto parte dal cuore, dall'intenzione e dal modo in cui ci accostiamo al Signore.
Noi siamo di Dio. Non c'è niente che noi dobbiamo dare a Cesare perché l'uomo è immagine di Dio. Lo sanno bene i Farisei che chiedono "se è lecito", non "se dobbiamo". Si avverte l'orgoglio di appartenere al popolo eletto; per cui solo Dio può dare il permesso di pagare le tasse. Gesù dicendo che dobbiamo "rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" ci dice che siamo in debito verso tutti, verso Dio e verso gli uomini. Restituendo tutto a Dio, si restituisce tutto a Cesare.
I Farisei sono sconfitti dall'iscrizione su una moneta. Iscrizione si trova solo sulla croce di Gesù e dice l'appartenenza. Se noi siamo a immagine di Dio, allora il cristianesimo ci chiede di più che la sola legalità. Il modello è il Cristo in croce.
E' uno degli episodi più cari agli esattori delle tasse, la risposta di Gesù, però, supera di molto il limite di una domanda pettegola come questa, posta dai discepoli dei farisei.
E' singolare notare che i capi dei farisei avevano mandato avanti i loro discepoli dopo essere stati "castigati" dalle risposte di Gesù riportate nelle parabole che abbiamo ascoltato le scorse domeniche. La risposta di Gesù, a questa domanda pettegola, sfugge alla logica dell'aut aut (o questo o quello) e, ad una prima impressione, sembra riflettere la classica posizione di chi vuol salvare capra e cavoli (et et... e questo e quello) ed in un certo senso è vero. Ma, allo stesso tempo, è una risposta che trascende il piano "teorico-giuridico-religioso" e si porta sul livello spirituale di sostanza, in fondo perché al Messia interessano solamente gli interessi del Padre e del suo Regno e non quelli economici dei precari regni (o principati...) della terra.
Ricordiamo anche che, soprattutto, l'intenzione sotterranea dei farisei e degli erodiani era quella di coglierlo in fallo ( nella stupida presunzione di cercare il fallimento in chi non potrà mai fallire!) ponendogli questa domanda, e gliela formulano dopo averlo, come si dice, "accarezzato" ben bene con delle lodi vere (cosa curiosa per degli specialisti di falsità!): "Sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno". Improvvisamente, quella che avrebbe potuto essere un normale confronto di idee su una questione legale, si trasforma in una reprimenda durissima contro la "malizia" che animava quella domanda e, soltanto dopo questa reprimenda, Gesù dà la sua stupefacente risposta che rimane, tra le altre, una di quelle passate più di tutte alla storia: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Espressione che, per gli uomini di ogni tempo che si professano credenti, apre tutto uno scenario di atteggiamenti e di comportamenti religiosi graditi a Dio, con la differenza che pagare le tasse costa e si vorrebbe evitare, mentre fare cose gradite a Dio costa poco ("il mio giogo è leggero" avrà modo di dire Gesù in altra circostanza) e dà gioia farlo.
26/10/2014
26 ottobre 2014 - XXX Domenica del Tempo Ordinari
26/10/2014
26 ottobre 2014
XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Es 22,20-26 / Sal 17 / 1Ts 1,5-10 / Mt 22,34-40
Amare con tutto noi stessi è necessario per vivere
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i profeti».
Qual è, nella Legge, il grande comandamento? Lo sapevano tutti qual era: il terzo, quello del Sabato, perché anche Dio lo osserva. La risposta di Gesù, come al solito, sorprende e va oltre: non cita nessuno dei Dieci Comandamenti, mette invece al cuore del suo annuncio la stessa cosa che sta al cuore della vita di tutti: tu amerai, desiderio, sogno, profezia di felicità per ognuno.
E allora sono certo che il Vangelo resterà fino a che resterà la vita, non si spegnerà fino a che non si spegnerà la vita stessa. Amerai, dice Gesù: un verbo al futuro, non all'imperativo, perché si tratta di una azione mai conclusa. Non un obbligo, ma una necessità per vivere, come respirare. Cosa devo fare domani per essere vivo? Tu amerai. Cosa farò l'anno che verrà, e poi dopo? Tu amerai. E l'umanità, il suo destino, la sua storia? Solo questo: l'uomo amerà. Un verbo al futuro, perché racconta la nostra storia infinita.
Qui gettiamo uno sguardo sulla fede ultima di Gesù: lui crede nell'amore come nella cosa più grande. Come lui, i cristiani sono quelli che credono non a una serie di nozioni, verità, dottrine, comandamenti, ma quelli che credono all'amore come forza determinante della storia. Amerai Dio con tutto, con tutto, con tutto. Per tre volte Gesù ripete che l'unica misura dell'amore è amare senza misura.
Ama Dio con tutto il cuore. Non significa ama Dio solamente, riservando a lui tutto il cuore, ma amalo senza mezze misure. E vedrai che resta del cuore, anzi cresce, per amare il marito, il figlio, la moglie, l'amico, il povero. Dio non è geloso, non ruba il cuore: lo moltiplica. Ama con tutta la mente. L'amore è intelligente: se ami, capisci prima, vai più a fondo e più lontano. Ama con tutte le forze. L'amore arma e disarma, ti fa debole davanti al tuo amato, ma poi capace di spostare le montagne.
Gli avevano domandato il comandamento grande e lui invece di uno ne elenca due, e il secondo è una sorpresa ancora più grande. La novità di Gesù sta nel fatto che le due parole fanno insieme una sola parola, l'unico comandamento. E dice: il secondo è simile al primo. Amerai l'uomo è simile ad amerai Dio. Il prossimo è simile a Dio, è la rivoluzione di Gesù: il prossimo ha volto e voce e cuore simili a Dio, è terra sacra davanti alla quale togliersi i calzari, come Mosè al Roveto ardente.
Per Gesù non ci può essere un amore verso Dio che non si traduca in amore concreto verso il prossimo. Ma perché amare, e con tutto me stesso? Perché una scheggia di Dio, infuocata, è l'amore. Perché Dio-Amore è l'energia fondamentale del cosmo, amor che muove il sole e le altre stelle, e amando entri nel motore caldo della vita, a fare le cose che Dio fa.
1/11/2014
1 novembre 2014 Tutti i Santi
1/11/2014
1 novembre 2014
Tutti i Santi
Ap 7,2-4.9-14 / Sal 23 / 1Gv 3,1-3 / Mt 5,1-12
Gesù guarda le folle, come prima i pescatori. Davanti ha una moltitudine povera e bisognosa di salvezza che lo sta seguendo. Guarda le folle, ma parla ai discepoli che gli si sono avvicinati. Lo sguardo alle folle ora è per loro, ma dovranno ricordare la destinazione universale del Vangelo.
Inizia il grande discorso della montagna, riferito al monte su cui si trovano e Gesù sembra rivolgersi a tutti quelli che s'incontreranno con lui, in ogni tempo e in ogni terra dove sarà annunciato il Vangelo.
Si dice "le Beatitudini", perché otto volte torna la parola "Beato". Non è un merito conquistato, ma un dono di Dio che raggiunge l'uomo e lo fa nuovo. Le beatitudini sono l'indice della vita cristiana perché mettono insieme il dono di Dio e il volto profondo della vita cristiana. Otto parole da chiarire, illuminare e spiegare. Ci vuole una vita intera, molte vite. Ci vuole la vita di tutti i santi per spiegare il grande segreto del Figlio di Dio che le incarna tutte.
Siamo davanti all'immensa Assemblea dei Santi e degli Angeli nella gloria celeste (prima lettura). Incalcolabile assemblea di comunione, di vita e di gioia stracolma. È la destinazione: per i Santi che ci hanno preceduto; per noi che siamo in cammino. Il Vangelo ci indica la via per arrivarci.
Oggi è la festa della gioia dei Santi; immensamente più grande di quanto possiamo immaginare. Come un bambino prima di nascere, chiuso nell'utero materno, non può immaginare il multiforme spettacolo di questo mondo che lo attende dopo la nascita, così noi non possiamo comprendere e descrivere l'arrivo, ma solo averne un vago presentimento attraverso le esperienze di meraviglia, di amore e di gioia che qualche volta ci capita di fare e che restano frammenti: il cielo sereno, la città di pietre preziose, il giardino, il convito, le nozze, la festosa liturgia, il canto.
Festa difficile, quella di oggi, in un contesto culturale chiuso in un orizzonte solo terreno, sprangato alla trascendenza. Si vive come se Dio non ci fosse, illudendoci di inseguire il piacere, la ricchezza, il potere, il successo. È come essere in un treno dimenticando di viaggiare e, soprattutto, di dove stiamo andando. Sì, perché anche noi siamo attesi in Paradiso.
Introduzione. La solennità odierna in onore di tutti i Santi ci ripropone una realtà, ritenuta fuori moda. La santità. La santità, molti oggi la ritengono una mèta impossibile. Quale il motivo? Semplicemente quello di pensare, che la santità, sia uno stato di vita riservato solo ad esperti di prodigi, miracoli e cose straordinarie. Niente di più falso di questo comodo pregiudizio. Per snidare la santità infatti, occorre solo una piccola strategia di avvicinamento, che consiste nella convinzione di voler indossare ogni giorno l'abito dell'ordinarietà, fatto di semplicità, di umiltà e di abbandono fiducioso in Dio. Gesù infatti, così pregava: " Ti ringrazio, Padre, che hai nascosto queste cose (= la santità) ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli".
La santità dunque, non è fatta per quanti si proclamano e vivono da "padreterni" della storia e della società, ma per le anime bisognose e assetate di Dio. Perciò la storia umana si concluderà bene per quanti avranno seguito Dio nella santità ordinaria di ogni giorno; si concluderà con un amaro fallimento eterno, per quanti invece avranno volutamente rifiutato Dio in vita.
Riflessione. Pertanto, la santità rifiutata, sia nella vita personale, che in quella civile, è sempre causa di mille lacerazioni interiori e anche sociali, che si manifestano purtroppo con i mille conflitti di guerre assurde e di efferati delitti, di cui ridondano le cronache di ogni giorno. Causa prima di questo triste stato di cose? Nessuno ha il coraggio di affermarlo in pubblico: la mancanza di Dio e il calpestamento delle sue leggi di vita.
Al contrario, la santità vissuta secondo lo spirito della suaccennata preghiera di Gesù, è sempre fonte di benessere, di comunione, non solo con Dio, ma anche con il prossimo.
Uno è Santo grazie alla vita in comunione con Dio, è il solo uomo, che vive anche in comunione con noi, mentre tutti gli altri in una certa misura, restano da noi separati e io aggiungerei anche: divisi e sempre in guerra tra loro.
In che consiste la santità?
Questa domanda prospetta due risposte:
1) La santità nel realizzarla consiste nel mettere in pratica lo spirito e lo sprint interiore, che scaturiscono dalle Beatitudini
2. La santità nel raggiungerla, consiste con una visione intuitiva di Dio... che si svela chiaramente, apertamente le anime sono veramente felici e hanno vita e pace eterna.
I motivi per i quali la santità è possibile a tutti.
Ne ricordiamo i più essenziali: la santità dunque è possibile perché:
1. Con il Battesimo tutti possono raggiungerla;
2. Riveste generalmente l'abito dimesso dell'ordinarietà, al punto che raramente ci si accorge di aver vissuto, o di vivere accanto ad un santo;
3. Con i Sacramenti vissuti bene, la santità si perfeziona di giorno in giorno e diventa a portata di mano;
4. Con la gioia interiore e la perseveranza nel bene, la santità ci aiuta a vivere meglio il duro, ma gratificante la missione di cristiano;
5. La santità consiste nello sforzo continuo di diventare ciò che dobbiamo essere, imitando Cristo, come:
6. Uomini: perfetti nel pensare, amare e agire;
7. Battezzati: assetati e affamati, non delle cose visibili, che sono di un momento, ma di quelle invisibili, che sono eterne.
Conclusione.
La festa di oggi sta nel riconoscere che nel mondo esiste una sola tristezza: quella di non essere Santi, soprattutto se non si capisce che: Il Signore ha reso la santità, una mèta semplice, gioconda e bella.
02/11/2014
2 novembre 2014 - Commemorazione di Tutti i Fedel
02/11/2014
2 novembre 2014
Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti (Messa I)
Gb 19,1.23-27a / Sal 26 / Rm 5,5-11 / Gv 6,37-40
Nel giorno della loro commemorazione, ricordiamo a noi stessi i nostri defunti con affetto e gratitudine. E ricordiamo a Dio tutti i defunti con la preghiera di suffragio. Ma è anche l'occasione per pensare alla nostra morte. Non sappiamo quando, ma è certo che verrà. Come dice sant'Agostino: "Quando un uomo nasce si possono fare ipotesi diverse: forse sarà bello, forse sarà brutto; forse sarà ricco, forse sarà povero; forse vivrà a lungo, forse non vivrà a lungo. Ma non si dice mai per nessuno: forse morirà, forse non morirà. Questa è l'unica cosa assolutamente certa".
Siamo certi di morire. La paura della morte è un tarlo che rode dentro in contrasto con l'istinto di conservazione, il più potente tra tutti. È l'insopprimibile desiderio di vita. Oggi la morte degli uomini che ci sono estranei viene banalizzata, fatta oggetto di curiosità o di crudo spettacolo. Invece è tabù parlare della propria morte e di quella dei propri cari. I bambini sono tenuti lontani dal nonno che muore. Si muore nella solitudine e non circondati dall'affetto e dalla preghiera dei familiari. Spesso i riti funebri vengono ridotti al minimo. Al più ci si preoccupa della sofferenza che di solito precede la morte, ma non della condizione in cui si va incontro con la morte.
Anche se non la pensiamo, la morte si avvicina inesorabile: ogni giorno è più vicina. Ed è stoltezza non pensarci, come ha scritto Pascal mettendo a nudo l'assurdità dell'indifferenza di chi vive senza porsi domande e cercare risposte.
"Conosco una cosa sola, che presto devo morire. Ma ciò che ignoro di più è proprio questa morte che non posso evitare... So soltanto che, uscendo da questo mondo, cado per sempre nelle mani di Dio... Non ci sono che tre categorie di persone: quelle che servono Dio, perché l'hanno trovato; quelle che si impegnano a cercarlo, perché non l'hanno trovato; quelle che vivono senza averlo trovato e senza cercarlo. Le prime sono ragionevoli e felici; le seconde sono infelici e ragionevoli; le ultime sono stolte e infelici... Uomini indifferenti... quando invece nei riguardi di tutte le altre cose temono anche le più insignificanti, le prevedono, le sentono; e lo stesso uomo che passa tanti giorni e tante notti nella rabbia e nella disperazione per la perdita di una carica o per qualche supposta offesa al suo onore, proprio lui sa che alla morte perderà tutto".
Pensare alla propria morte è indispensabile per morire bene e prima ancora per vivere bene. Il cristiano non ha paura di guardare in faccia la morte. Le va incontro con fiducia consegnandosi nelle mani di Dio infinitamente misericordioso. Gesù illumina il nostro destino: "Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna. E io lo risusciterò nell'ultimo giorno".
Non piangete sulla mia tomba.
Io non sono lì, non sto dormendo.
Io sono i mille venti che soffiano,
Sono i riflessi di diamante sulla neve,
Sono la luce del sole sul grano maturo,
Sono la pioggia dell'autunno gentile.
Quando vi svegliate nel silenzio del mattino,
Io sono il cinguettare e il volo degli uccelli,
Sono le stelle che brillano di notte.
Non piangete sulla mia tomba,
Io non sono lì, non sono morto.
Per il cristiano questa speranza è una persona: Gesù. Non si tratta più solo di un desiderio segreto ma della certezza che Gesù ci resuscita nell'ultimo giorno. Tutto ciò che il Padre mi dà io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Il Padre ci attira al Figlio e ci inserisce nel mistero Pasquale, nella morte e resurrezione del suo Figlio, per risorgere anche noi con lui.
La resurrezione però non è solo un evento finale, degli ultimi tempi. Inizia già adesso, come dice San Paolo, usando tre parole:
1. Siamo riconciliati. Sono perdonati i nostri peccati, il nostro male che produce in noi tristezza è sconfitto per sempre per mezzo del sangue di Gesù, cioè della sua morte per amore nostro.
2. Siamo salvati. La morte di Gesù è in funzione della vita, di una vita "per sempre" che si chiama salvezza. Si tratta di vivere la vita stessa di Dio, che ora può fluire in noi in pienezza, senza più l'ostacolo del peccato e del male.
ci gloriamo. Questa comunione d'amore è anche una gloria particolare, che ci rende famosi, perché concittadini dei santi, di una città dove per ogni nuovo entrato c'è un grido di gioia, di esultanza e di festa.
Ogni volta che un bambino viene battezzato si invoca il nome del suo patrono per celebrare un grande evento, un nuovo santo è entrato a far parte di una grande comunità, e un tifo da stadio lo accoglie e lo incita a lottare con tutte le forze, per corrispondere al dono della santità che egli ha appena ricevuto. Ogni volta che un adulto si converte e ritrova la fede che aveva abbandonato, per distrazione o superficialità, il cielo esulta perché la fama di un nuovo santo ha appena raggiunto tutti gli estremi confini dell'universo celeste. Ogni volta che un uomo muore la gloria dei santi si affretta ad incoronare colui che, passando attraverso il mistero della morte, è entrato improvvisamente in comunione con il Figlio Gesù e viene accolto dall'abbraccio del Padre.
09/11/2014
9 novembre 2014 - Dedicazione della Basilica Late
09/11/2014
9 novembre 2014
Dedicazione della Basilica Lateranense
Gesù caccia i profanatori dal tempio
Da Cana di Galilea Gesù, insieme con la Madre, i suoi parenti e i suoi discepoli, scese a Cafarnao che si trovava a un livello più basso, e vi rimase alcuni giorni, per unirsi al pellegrinaggio che si recava in Gerusalemme per la solennità della Pasqua. Egli non aveva ancora stabilito a Cafarnao la sua dimora. Andato a Gerusalemme si recò al tempio per adorare il Padre, e vi notò un gravissimo sconcio, contro il quale insorse con tutto l’impeto del suo zelo e il fulgore della sua divina maestà.
Nell’atrio o cortile detto dei pagani, si era formato un vero mercato di animali atti ai sacrifici cruenti, e di ciò che poteva servire per le offerte sacre. Data l’imminenza della Pasqua, il traffico era grande e, per facilitare il cambio delle monete greche o romane che non potevano essere introdotte nel tempio a causa dei loro simboli pagani, si erano stabiliti nell’atrio sacro anche dei cambiavalute, pronti a cambiare con interesse, ad usura, le monete in sicli ebraici d’argento. La baraonda e il vociare dei trafficanti, unito alle voci degli animali e al sudiciume che vi lasciavano, avevano ridotto il luogo sacro in uno stato obbrobrioso; i sacerdoti e i leviti lasciavano fare, perché ricavavano lauti profitti da quel commercio.
Nel tempo della sua vita nascosta, Gesù aveva notato il sacrilego sconcio ogni volta che era andato a Gerusalemme, ma aveva taciuto, perché non era giunto il tempo di rivelarsi; ora, però, Egli iniziava la sua vita pubblica e, operando da padrone, ripieno com’era d’amore per il Padre, avvampò di santo sdegno e, prese alcune cordicelle, forse di quelle che servivano a tener legati gli animali, ne formò come una sferza e cominciò a cacciare fuori gli animali, e con essi gli uomini che li custodivano o li vendevano. I banchieri, i più freddi e insensibili al divino rimprovero, non si mossero, anzi, dovettero aggrapparsi ai loro banchi per difenderli dall’urto degli animali che fuggivano in ogni direzione, ma Gesù, avvicinatosi ai banchi, li rovesciò con impeto divino, gettando per terra le loro monete. Solo verso i venditori di colombe fu più pacato, perché essi le vendevano ai poveri e le avevano in gabbia, e li esortò a togliere di là quella roba, gridando ad essi e a tutti di non cambiare la casa del Padre suo in una bottega di traffico. Nessuno osò reagire a quell’impeto divino, e ne fu tanta la maestà amorosa che gli apostoli, benché ancora novellini nelle vie di Dio, si ricordarono che nel salmo 68,10 era predetto del Messia che lo zelo della Casa di Dio lo avrebbe consumato, e videro spontaneamente, in quell’atto, il compimento della profezia.
La Vergine Santissima, ottenendo a Cana il miracolo dell’acqua mutata in vino, aveva anticipato l’ora di Gesù, cioè il tempo della sua manifestazione pubblica come Messia e Salvatore del mondo, e il primo atto del ministero di Lui fu quello di cacciare dal tempio i profanatori che lo avevano ridotto ad una bottega.
Il rimprovero dei Giudei a Gesù e la sua assoluta padronanza
Il frastuono prodotto dall’uscire precipitoso dei venditori e degli animali dal cortile del tempio fece intervenire intorno a Gesù, di furia, i Giudei, cioè le autorità del santuario, decise a mettere a posto il disturbatore del loro traffico indegno, e di espellere, a loro volta, dal luogo santo, colui che, a loro giudizio, si arrogava un potere che non aveva; ma quando si trovarono innanzi al Signore furono così conquisi dalla sua divina maestà che non osarono rimproverarlo e tanto meno cacciarlo; videro, nel suo atteggiamento, qualcosa di straordinario, e vollero accertarsene, domandandogli un miracolo come conferma.
La loro pretesa poteva essere anche legittima, se avessero fatto quella domanda per accertarsi della missione di Lui; ma essi, in realtà, benché conquisi della sua maestà, crederono di metterlo in imbarazzo, costringendolo a riconoscere di non avere il potere di sostituirsi a loro nella custodia del luogo santo. Lo sdegno, poi, che sentivano per il mancato lucro che veniva ad essi da quell’indegno mercato dovette farli avvampare d’ira, e far loro desiderare fin d’allora di disfarsi di Lui.
Egli, perciò, riaffermando con i fatti la sua divina potestà e padronanza che non doveva dar conto a nessuno nel tutelare l’onore del Padre, rispose enigmaticamente: Distruggete questo tempio, e io in tre giorni lo riedificherò.
La frase sembrò un assurdo, data la mole del tempio e la sontuosità della fabbrica.
L’edificio, cominciato da Erode il Grande nell’anno 18° del suo regno, e quindi molto tempo prima della nascita di Gesù, non era terminato ancora nei suoi particolari, benché ci si lavorasse da 46 anni. Fu terminato solo nel 64 dell’era nostra, poco prima della sua distruzione per opera dei Romani, il 70 dell’era volgare. I Giudei, perciò, dissero a Gesù in tono ironico: Questo tempio fu edificato in quarantasei anni, e tu lo rimetterai in piedi in tre giorni? Gesù, invece, – soggiunge l’evangelista –, parlava del tempio del suo corpo, e quindi alludeva alla sua morte ed alla sua risurrezione. I suoi apostoli lo constatarono quando Egli risorse, si ricordarono che la Scrittura in più luoghi aveva predetto la sua risurrezione (cf Sal 15,10; Is 53,10-12) e crederono alle sue parole.
Nonostante che la promessa di Gesù avesse avuto il carattere di un paradosso, gli Ebrei non osarono reagire violentemente contro di Lui; sentirono, loro malgrado, che era la verità, benché non sapessero spiegarlo. Alcuni suppongono che Gesù, nel dire quelle parole, avesse fatto cenno con la mano al suo corpo, toccandosi il petto ma, pur facendo questo gesto, Egli non avrebbe potuto farsi intendere da quelli che ignoravano i prossimi misteri della sua morte e della sua risurrezione. Con profondissimo pensiero, Egli accennò all’argomento fondamentale della verità di tutta la sua opera, e parlò con piena padronanza, precorrendo i tempi. Se pur avesse fatto un miracolo in quel momento, come ne aveva già fatto molti in Gerusalemme (versetto 23), i Giudei non gli avrebbero creduto; Egli, invece, li tacitò con una risposta enigmatica, detta in tutta la pienezza della sua maestà. Mettendoli così a tacere, non diceva una cosa paradossale, se si riguarda la sua affermazione nella luce divina.
Quel tempio maestoso, infatti, era figura e ombra del suo Corpo divino; all’apparenza sembrava immensamente più grande, ma, in realtà, era infinitamente più piccolo. Per distruggere il tempio materiale ci sarebbero voluti elementi umani, determinati e mossi dalla volontà umana; per uccidere, invece, il suo corpo era necessario un permesso della divina volontà, e occorreva il concorso del suo amore che si donava.
Era un prodigio di misericordia il permesso dell’immolazione della Vittima divina, com’era un prodigio di onnipotenza la sua risurrezione dalla morte.
Il tempio stava dunque al suo Corpo come lo schizzo di una fabbrica sta alla fabbrica stessa; Gesù, quindi, non si servì d’un paragone improprio né disse una parola vana ma la sua fu una parola profondissima.
Un enigma penoso per gli apostoli
Dal contesto si rileva che per gli apostoli l’affermazione di Gesù dovette costituire sempre un enigma penoso e un’oscurità in mezzo alla luce che pur vedevano intensa; è per questo che l’evangelista soggiunge che essi, dopo la risurrezione di Gesù si ricordarono di quelle parole, e crederono alle Scritture e a ciò che aveva detto il Signore. Si spiegarono solo allora un mistero incomprensibile che aveva per essi l’apparenza di un assurdo.
Così avviene nelle grandi manifestazioni della potenza, della sapienza e dell’amore di Dio; accanto alla luce ci sono pure le ombre e le tenebre misteriose; perché non tutto ciò che dice o opera il Signore si riferisce ai nostri piccoli pensieri o al tempo presente.
Quando si vede la luce da un lato, le oscurità non sono tenebre di falsità ma un’oscurità e ombra di un mistero che può chiarificarsi dopo anni di attesa, e che può attendere la sua luce anche nell’eternità.
Nel tempo nel quale Gesù stette a Gerusalemme per la Pasqua – soggiunge l’evangelista –, molti crederono in Lui per i miracoli che Egli faceva, ma la loro fede era superficiale, benché esternamente sembrasse entusiasta, e Gesù non si fidava di loro, perché li conosceva nell’intimo del cuore, e non aveva bisogno che altri rendesse testimonianza di loro.
San Giovanni, con queste parole, vuol far notare che Gesù era Dio, e considerava le sue creature non attraverso le apparenze esterne, ma scrutandone il cuore e conoscendone gl’intimi pensieri.
Innanzi a questo sguardo divino non possiamo presumere di noi né fidarci della nostra giustizia, perché Egli può vedere ciò che noi non vediamo.
16/11/2014
16 novembre 2014 - XXXIII Domenica del Tempo Ordi
16/11/2014
16 novembre 2014
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Pr 31,10-13.19-20.30-31 / Sal 127 / 1Ts 5,1-6 / Mt 25,14-30
Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. Dio ci consegna qualcosa e poi esce di scena. Ci consegna il mondo, con poche istruzioni per l’uso, e tanta libertà. Un volto di Dio che ritroviamo in molte parabole: ha fiducia in noi, ci innalza a con-creatori, lo fa con un dono e una regola, quella di Adamo nell’Eden "coltiva e custodisci " il giardino dove sei posto, vale a dire: ama e moltiplica la vita, sacerdote di quella che è la liturgia primordiale del mondo. Nessun uomo è senza giardino, perché ciò che è stato vero per Adamo è vero da allora per ogni suo figlio.
I talenti dati ai servi, dal padrone generoso e fiducioso, oltre a rappresentare le doti intellettuali e di cuore, la bellezza interiore, di cui nessuno è privo, di cui la luce del corpo è solo un riflesso, annunciano che ogni creatura messa sulla mia strada è un talento di Dio per me, tesoro messo nel mio campo. E io sono il coltivatore e custode della sua fioritura e felicità. Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, di inizi che devono fiorire. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli
Arriva il momento del rendiconto, e si accumulano sorprese. La prima: colui che consegna dieci talenti non è più bravo di chi ne consegna solo quattro. Non c’è una tirannia o un capitalismo della quantità, perché le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. Occorre solo sincerità del cuore e fedeltà a se stessi, per dare alla vita il meglio di ciò che possiamo dare.
La seconda sorpresa: Dio non è un padrone esigente che rivuole indietro i suoi talenti con gli interessi. La somma rimane ai servitori, anzi è raddoppiata: sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto. I servi vanno per restituire, e Dio rilancia. Questo accrescimento di vita è il Vangelo, questa spirale d’amore crescente è l’energia di Dio incarnata in tutto ciò che vive.
Si presentò infine colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: ho avuto paura. La parabola dei talenti è un invito a non avere paura delle sfide della vita, perché la paura paralizza, ci rende perdenti: quante volte abbiamo rinunciato a vincere solo per la paura di finire sconfitti! Il Vangelo è maestro della sapienza del vivere, della più umana pedagogia che si fonda su tre regole: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. E soprattutto da quella che è la paura delle paure: la paura di Dio.
23/11/2014
23 novembre 2014 XXXIV FESTA DI CRISTO RE Domenic
23/11/2014
23 novembre 2014
FESTA DI CRISTO RE
XXXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Oggi con la festa di Cristo Re termina l'anno liturgico e la domenica seguente - la prima di Avvento - dà avvio al nuovo ciclo e alla preparazione per il Natale.
S. Matteo, con una parabola che gli è unica, ci offre l'immagine del Cristo che è nello stesso tempo Re, Pastore e Giudice del suo gregge. Il suo giudizio è sull'elemento base della vita Cristiana: l'amore al prossimo specie ai più deboli come espressione concreta della "sequela Christi"; amore che deve tradursi in atteggiamenti e scelte concrete a volte non facili e gratificanti.
La celebrazione di questa festa liturgica, pur avendo un elemento liturgico/spirituale base o comune per tutti noi cattolici sparsi nel mondo, assume però colori o valenze/significati specifici in base alla nostra situazione esistenziale, o possiamo dire che provoca ciascuno di noi in modo diverso: non è lo stesso per me che vivo a Tondo, Manila, Filippine, missionario e parroco tra la gente povera del porto e incontro quasi ogni giorno bambini che chiedono un pezzo di pane o regolarmente arriva alla sera Linda, una mendicante ?sui generis' che chiede quasi con pretesa di avere un pasto caldo e un posto sicuro ed asciutto per dormire nel porticato della chiesa; o per un italiano che incontra sempre più stranieri o extracomunitari nelle strade e nei negozi anche dei paesini di campagna e non può, non deve ignorarli o far finta che non esistano sperando che tornino a casa loro!
La liturgia di questa domenica del Cristo Re non solo sottolinea l'elemento escatologico della nostra fede o l'invito a guardare in alto e al futuro, all'eterno - e questo è essenziale per noi, tante volte ingarbugliati da un ritmo quotidiano frenetico o assorbiti dalle attrazioni materialistiche del presente; ma il Vangelo ci dice pure che questo giudizio futuro ce lo prepariamo noi oggi con i nostri atti concreti d'amore o di egoismo, con le piccole scelte, priorità, attenzioni o omissioni del presente. Alla fine saremo giudicati dal Re seduto in trono non su risultati accademici, successo professionale o conto in banca e neppure sulla pregevolezza della nostra liturgia domenicale, ma sull'amore concreto mostrato verso i deboli, gli esclusi della società.
Il nostro Re non vive nei palazzi, non compete con altri per le prime pagine dei giornali, per prestigio, posizione o potere ma si nasconde nell'affamato, assetato, ammalato, lo straniero che ci cammina accanto.
È il Cristo Re che, secondo il vangelo di Giovanni, farà vedere sulla Croce la sua identità e gloria ai Greci che lo vogliono vedere/incontrare (Gv 12,21). È il Crocifisso "Re' dei giudei' colui che realmente mostra la regalità di un Dio che ama fino in fondo, come sottolinea molto bene Benedetto XVI nel secondo volume del Gesù di Nazareth.
Domande o provocazioni
- In quali situazioni ho sentito che l'atteggiamento evangelico non sarebbe stato per nulla facile o gratificante dal punto di vista umano?
- Come vivo il mio rapporto con lo straniero o con le persone che incontro e che hanno cultura, atteggiamenti, modi di vivere, diversi dai miei?
- Prova a pensare agli atteggiamenti i cui sei stato dalla parte del debole e a quelli in cui sei stato dalla parte dell'oppressore.
30/11/2014
30 novembre 2014 - I Domenica di Avvento (Anno
30/11/2014
30 novembre 2014
I Domenica di Avvento (Anno B)
Avvento è un tempo di incamminati: tutto si fa più vicino, Dio a noi, noi agli altri, io a me stesso. In cui si abbreviano distanze: tra cielo e terra, tra uomo e uomo, e si avviano percorsi. Nel Vangelo di oggi il padrone se ne va e lascia tutto in mano ai suoi servi, a ciascuno il suo compito (Marco 13,34). Una costante di molte parabole, dove Gesù racconta il volto di un Dio che mette il mondo nelle nostre mani, che affida le sue creature all'intelligenza fedele e alla tenerezza combattiva dell'uomo.
Ma un doppio rischio preme su di noi. Il primo, dice Isaia, è quello del cuore duro: perché lasci indurire il nostro cuore lontano da te? La durezza del cuore è la malattia che Gesù teme di più, la "sclerocardìa" che combatte nei farisei, che intende con tutto se stesso curare e guarire. Chi ha il cuore dolce sarà perdonato. Il secondo rischio è vivere una vita addormentata: che non giunga l'atteso all'improvviso trovandovi addormentati. Il Vangelo ci consegna una vocazione al risveglio, perché «senza risveglio, non si può sognare.
Rischio quotidiano è una vita dormiente, incapace di cogliere arrivi ed inizi, albe e sorgenti; di vedere l'esistenza come una madre in attesa, gravida di luce; una vita distratta e senza attenzione. Vivere attenti. Ma a che cosa? Attenti alle persone, alle loro parole, ai loro silenzi, alle domande mute, ad ogni offerta di tenerezza, alla bellezza del loro essere vite incinte di Dio. Attenti al mondo, nostro pianeta barbaro e magnifico, alle sue creature più piccole e indispensabili: l'acqua, l'aria, le piante.
Attenti a ciò che accade nel cuore e nel piccolo spazio di realtà in cui mi muovo. Noi siamo argilla nelle tue mani. Tu sei colui che ci dà forma. Il profeta invita a percepire il calore, il vigore, la carezza delle mani di Dio che ogni giorno, in una creazione instancabile, ci plasma e ci dà forma; che non ci butta mai via, se il nostro vaso riesce male, ma ci rimette di nuovo sul tornio del vasaio. Con una fiducia che io tante volte ho tradito, che Lui ogni volta ha rilanciato in avanti.
30 novembre 2014
I Domenica di Avvento (Anno B)
Is 63,16-17.19; 64,2-7 / Sal 79 / 1Cor 1,3-9 / Mc 13,33-37
Attesa nell'amore e nella gioia
Gesù Cristo, nostro Signore, al suo primo avvento nell'umiltà della nostra natura umana portò a compimento la promessa antica e ci aprì la via dell'eterna salvezza. Verrà di nuovo nello splendore della gloria e ci chiamerà a possedere il regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell'attesa".
Il tempo di Avvento segna l'inizio dell'anno liturgico. E' preparazione alla celebrazione della grazia del Natale all'insegna della vigilanza e della preghiera, unendo la celebrazione liturgica della prima venuta, già realizzata, con l'attesa della venuta definitiva di Cristo, alla fine dei tempi e, per ciascuno, alla fine della vita.
Gesù stesso nel vangelo ci dice: "Fate attenzione, vegliate, perché non sapete né il giorno né l'ora: vegliate dunque", perché non vi trovi addormentati, o inoperosi o implicati nel male.
La vigilanza e la preghiera le viviamo nella pace e nella gioia: E' il Signore che viene, per ciascuno, per le nostre famiglie, per questa comunità parrocchiale, per il mondo. Nelle situazioni delicate e difficili del mondo, noi invochiamo il Signore e Lui viene davvero. Abbiamo un esempio di questa preghiera profonda e sincera nella prima lettura, dove il profeta a nome di tutto il popolo, implora perdono e salvezza. Il Signore non solo ha ascoltato ed esaudito con qualche grazia, ma dando il suo stesso Figlio, come manifestazione del suo amore infinito e tutti in Lui siamo salve per sempre.
Gesù ci dice: "Vegliate".
Noi al mattino facciamo suonare la sveglia per svegliarci e per non alzarci tardi. La Parola di Dio ci dice: Vegliate: state svegli, state attenti, vigilate!
Cosa significa essere svegli? Pensate all'autista di un camion o di una macchina: un autista deve essere sempre sveglio, per fare bene il proprio viaggio, per non incorrere in pericoli che sarebbero gravissimi.
Noi dobbiamo essere svegli, attenti, vigilanti, perché viene il Signore.
Noi aspettiamo questa venuta. C'è sempre l'attesa e la preparazione dell'incontro finale e definitivo con il Signore.
E questo non deve essere un pensiero triste, ma un pensiero di speranza, di gioia. E' bello pensare che al termine della nostra vita il Signore ci aspetta a braccia aperte. Noi sappiamo dove stiamo andando: non sappiamo quando, ma sappiamo dove: nella braccia del Padre nostro che è nei cieli. Questo ci commuove. Noi sappiamo che la nostra vita, a volte travagliata, a volte con prove e sofferenze, questa nostra vita avrà una conclusione felice. Sappiamo che il Signore ci attende per darci la vita che non avrà più fine, nella pace e nella gioia, nella pienezza del suo amore. Quando si sa perché si vive, vale la pena vivere e vivere nel modo migliore. La fede dà questo senso pieno all'esistenza, altrimenti saremmo tentati tante volte di disperazione. Questa attesa del Signore ringiovanisce la nostra vita, ci fa sentire come bambini che hanno tutto il loro futuro davanti. Per noi, anche a 80 anni e più, il futuro è avanti, la nostra piena realizzazione deve ancora arrivare. E se fisicamente sono calate le forze, ci è dato il tempo della vigilanza, della preghiera, della preparazione, dell'amore, in attesa dell'Incontro e dell'abbraccio con il Signore.