http://www.vatican.va/holy_father/francesco/index_it.htm
Dal sito del Corriere della Sera:
http://www.corriere.it/cronache/14_marzo_04/vi-racconto-mio-primo-anno-papa-90f8a1c4-a3eb-11e3-b352-9ec6f8a34ecc.shtml
Testo integrale dell'intervista rilasciata da Papa Francesco al Corriere della Sera
5 marzo 2014 alle ore 4.41
Un
anno è trascorso da quel semplice «buonasera» che commosse il mondo.
L’arco di dodici mesi così intensi — non solo per la vita della Chiesa —
fatica a contenere la grande messe di novità e i tanti segni profondi
dell’innovazione pastorale di Francesco. Siamo in una saletta di Santa
Marta. Una sola finestra dà su un piccolo cortile interno che schiude un
minuscolo angolo di cielo azzurro. La giornata è bellissima,
primaverile, tiepida. Il Papa sbuca all’improvviso, quasi di scatto, da
una porta e ha un viso disteso, sorridente. Guarda divertito i troppi
registratori che l’ansia senile di un giornalista ha posto su un
tavolino. «Funzionano? Sì? Bene». Il bilancio di un anno? No, i bilanci
non gli piacciono. «Li faccio solo ogni quindici giorni, con il mio
confessore».
Lei, Santo Padre, ogni tanto telefona a chi le chiede aiuto. E qualche volta non le credono.
«Sì,
è capitato. Quando uno chiama è perché ha voglia di parlare, una
domanda da fare, un consiglio da chiedere. Da prete a Buenos Aires era
più semplice. E per me resta un’abitudine. Un servizio. Lo sento dentro.
Certo, ora non è tanto facile farlo vista la quantità di gente che mi
scrive».
E c’è un contatto, un incontro che ricorda con particolare affetto?
«Una
signora vedova, di ottant’anni, che aveva perso il figlio. Mi scrisse. E
adesso le faccio una chiamatina ogni mese. Lei è felice. Io faccio il
prete. Mi piace».
I rapporti con il suo predecessore. Ha mai chiesto qualche consiglio a Benedetto XVI?
«Sì.
Il Papa emerito non è una statua in un museo. È una istituzione. Non
eravamo abituati. Sessanta o settant’anni fa, il vescovo emerito non
esisteva. Venne dopo il Concilio. Oggi è un’istituzione. La stessa cosa
deve accadere per il Papa emerito. Benedetto è il primo e forse ce ne
saranno altri. Non lo sappiamo. Lui è discreto, umile, non vuole
disturbare. Ne abbiamo parlato e abbiamo deciso insieme che sarebbe
stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse alla vita della
Chiesa. Una volta è venuto qui per la benedizione della statua di San
Michele Arcangelo, poi a pranzo a Santa Marta e, dopo Natale, gli ho
rivolto l’invito a partecipare al Concistoro e lui ha accettato. La sua
saggezza è un dono di Dio. Qualcuno avrebbe voluto che si ritirasse in
una abbazia benedettina lontano dal Vaticano. Io ho pensato ai nonni che
con la loro sapienza, i loro consigli danno forza alla famiglia e non
meritano di finire in una casa di riposo».

Il
suo modo di governare la Chiesa a noi è sembrato questo: lei ascolta
tutti e decide da solo. Un po’ come il generale dei gesuiti. Il Papa è
un uomo solo?
«Sì e no. Capisco quello che vuol dirmi. Il
Papa non è solo nel suo lavoro perché è accompagnato e consigliato da
tanti. E sarebbe un uomo solo se decidesse senza sentire o facendo finta
di sentire. Però c’è un momento, quando si tratta di decidere, di
mettere una firma, nel quale è solo con il suo senso di responsabilità».
Lei
ha innovato, criticato alcuni atteggiamenti del clero, scosso la Curia.
Con qualche resistenza, qualche opposizione. La Chiesa è già cambiata
come avrebbe voluto un anno fa?
«Io nel marzo scorso non
avevo alcun progetto di cambiamento della Chiesa. Non mi aspettavo
questo trasferimento di diocesi, diciamo così. Ho cominciato a governare
cercando di mettere in pratica quello che era emerso nel dibattito tra
cardinali nelle varie congregazioni. Nel mio modo di agire aspetto che
il Signore mi dia l’ispirazione. Le faccio un esempio. Si era parlato
della cura spirituale delle persone che lavorano nella Curia, e si sono
cominciati a fare dei ritiri spirituali. Si doveva dare più importanza
agli Esercizi Spirituali annuali: tutti hanno diritto a trascorrere
cinque giorni in silenzio e meditazione, mentre prima nella Curia si
ascoltavano tre prediche al giorno e poi alcuni continuavano a
lavorare».
La tenerezza e la misericordia sono l’essenza del suo messaggio pastorale...
«E
del Vangelo. È il centro del Vangelo. Altrimenti non si capisce Gesù
Cristo, la tenerezza del Padre che lo manda ad ascoltarci, a guarirci, a
salvarci».
Ma è stato compreso questo messaggio? Lei ha
detto che la francescomania non durerà a lungo. C’è qualcosa nella sua
immagine pubblica che non le piace?
«Mi piace stare tra
la gente, insieme a chi soffre, andare nelle parrocchie. Non mi
piacciono le interpretazioni ideologiche, una certa mitologia di papa
Francesco. Quando si dice per esempio che esce di notte dal Vaticano per
andare a dar da mangiare ai barboni in via Ottaviano. Non mi è mai
venuto in mente. Sigmund Freud diceva, se non sbaglio, che in ogni
idealizzazione c’è un’aggressione. Dipingere il Papa come una sorta di
superman, una specie di star, mi pare offensivo. Il Papa è un uomo che
ride, piange, dorme tranquillo e ha amici come tutti. Una persona
normale».
Nostalgia per la sua Argentina?
«La
verità è che io non ho nostalgia. Vorrei andare a trovare mia sorella,
che è ammalata, l’ultima di noi cinque. Mi piacerebbe vederla, ma questo
non giustifica un viaggio in Argentina: la chiamo per telefono e questo
basta. Non penso di andare prima del 2016, perché in America Latina
sono già stato a Rio. Adesso devo andare in Terra Santa, in Asia, poi in
Africa».
Ha appena rinnovato il passaporto argentino. Lei è pur sempre un capo di Stato.
«L’ho rinnovato perché scadeva».
Le sono dispiaciute quelle accuse di marxismo, soprattutto americane, dopo la pubblicazione dell’Evangelii Gaudium?
«Per
nulla. Non ho mai condiviso l’ideologia marxista, perché non è vera, ma
ho conosciuto tante brave persone che professavano il marxismo».
Gli
scandali che hanno turbato la vita della Chiesa sono fortunatamente
alle spalle. Le è stato rivolto, sul delicato tema degli abusi sui
minori, un appello pubblicato dal Foglio e firmato tra gli altri dai
filosofi Besançon e Scruton perché lei faccia sentire alta la sua voce
contro i fanatismi e la cattiva coscienza del mondo secolarizzato che
rispetta poco l’infanzia.
«Voglio dire due cose. I casi
di abusi sono tremendi perché lasciano ferite profondissime. Benedetto
XVI è stato molto coraggioso e ha aperto una strada. La Chiesa su questa
strada ha fatto tanto. Forse più di tutti. Le statistiche sul fenomeno
della violenza dei bambini sono impressionanti, ma mostrano anche con
chiarezza che la grande maggioranza degli abusi avviene in ambiente
familiare e di vicinato. La Chiesa cattolica è forse l’unica istituzione
pubblica ad essersi mossa con trasparenza e responsabilità. Nessun
altro ha fatto di più. Eppure la Chiesa è la sola ad essere attaccata».
Santo
Padre, lei dice «i poveri ci evangelizzano». L’attenzione alla povertà,
la più forte impronta del suo messaggio pastorale, è scambiata da
alcuni osservatori come una professione di pauperismo. Il Vangelo non
condanna il benessere. E Zaccheo era ricco e caritatevole.
«Il
Vangelo condanna il culto del benessere. Il pauperismo è una delle
interpretazioni critiche. Nel Medioevo c’erano molte correnti
pauperistiche. San Francesco ha avuto la genialità di collocare il tema
della povertà nel cammino evangelico. Gesù dice che non si possono
servire due signori, Dio e la Ricchezza. E quando veniamo giudicati nel
giudizio finale (Matteo, 25) conta la nostra vicinanza con la povertà.
La povertà allontana dall’idolatria, apre le porte alla Provvidenza.
Zaccheo devolve metà della sua ricchezza ai poveri. E a chi tiene i
granai pieni del proprio egoismo il Signore, alla fine, presenta il
conto. Quello che penso della povertà l’ho espresso bene nella Evangelii
Gaudium».
Lei ha indicato nella globalizzazione,
soprattutto finanziaria, alcuni dei mali che aggrediscono l’umanità. Ma
la globalizzazione ha strappato dall’indigenza milioni di persone. Ha
dato speranza, un sentimento raro da non confondere con l’ottimismo.
«È
vero, la globalizzazione ha salvato dalla povertà molte persone, ma ne
ha condannate tante altre a morire di fame, perché con questo sistema
economico diventa selettiva. La globalizzazione a cui pensa la Chiesa
assomiglia non a una sfera, nella quale ogni punto è equidistante dal
centro e in cui quindi si perde la peculiarità dei popoli, ma a un
poliedro, con le sue diverse facce, per cui ogni popolo conserva la
propria cultura, lingua, religione, identità. L’attuale globalizzazione
“sferica” economica , e soprattutto finanziaria, produce un pensiero
unico, un pensiero debole. Al centro non vi è più la persona umana, solo
il denaro».
Il tema della famiglia è centrale
nell’attività del Consiglio degli otto cardinali. Dall’esortazione
Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II molte cose sono cambiate. Due
Sinodi sono in programma. Si aspettano grandi novità. Lei ha detto dei
divorziati: non vanno condannati, vanno aiutati.
«È un
lungo cammino che la Chiesa deve compiere. Un processo voluto dal
Signore. Tre mesi dopo la mia elezione mi sono stati sottoposti i temi
per il Sinodo, si è proposto di discutere su quale fosse l’apporto di
Gesù all’uomo contemporaneo. Ma alla fine con passaggi graduali — che
per me sono stati segni della volontà di Dio — si è scelto di discutere
della famiglia che attraversa una crisi molto seria. È difficile
formarla. I giovani si sposano poco. Vi sono molte famiglie separate
nelle quali il progetto di vita comune è fallito. I figli soffrono
molto. Noi dobbiamo dare una risposta. Ma per questo bisogna riflettere
molto in profondità. È quello che il Concistoro e il Sinodo stanno
facendo. Bisogna evitare di restare alla superficie. La tentazione di
risolvere ogni problema con la casistica è un errore, una
semplificazione di cose profonde, come facevano i farisei, una teologia
molto superficiale. È alla luce della riflessione profonda che si
potranno affrontare seriamente le situazioni particolari, anche quelle
dei divorziati, con profondità pastorale».
Perché
la relazione del cardinale Walter Kasper all’ultimo Concistoro (un
abisso tra dottrina sul matrimonio e la famiglia e la vita reale di
molti cristiani) ha così diviso i porporati? Come pensa che la Chiesa
possa percorrere questi due anni di faticoso cammino arrivando a un
largo e sereno consenso? Se la dottrina è salda, perché è necessario il
dibattito?
«Il cardinale Kasper ha fatto una bellissima e
profonda presentazione, che sarà presto pubblicata in tedesco, e ha
affrontato cinque punti, il quinto era quello dei secondi matrimoni. Mi
sarei preoccupato se nel Concistoro non vi fosse stata una discussione
intensa, non sarebbe servito a nulla. I cardinali sapevano che potevano
dire quello che volevano, e hanno presentato molti punti di vista
distinti, che arricchiscono. I confronti fraterni e aperti fanno
crescere il pensiero teologico e pastorale. Di questo non ho timore,
anzi lo cerco».
In un recente passato era abituale
l’appello ai cosiddetti «valori non negoziabili» soprattutto in bioetica
e nella morale sessuale. Lei non ha ripreso questa formula. I principi
dottrinali e morali non sono cambiati. Questa scelta vuol forse indicare
uno stile meno precettivo e più rispettoso della coscienza personale?
«Non
ho mai compreso l’espressione valori non negoziabili. I valori sono
valori e basta, non posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una
meno utile di un’altra. Per cui non capisco in che senso vi possano
esser valori negoziabili. Quello che dovevo dire sul tema della vita,
l’ho scritto nell’esortazione Evangelii Gaudium».
Molti Paesi regolano le unioni civili. È una strada che la Chiesa può comprendere? Ma fino a che punto?
«Il
matrimonio è fra un uomo e una donna. Gli Stati laici vogliono
giustificare le unioni civili per regolare diverse situazioni di
convivenza, spinti dall’esigenza di regolare aspetti economici fra le
persone, come ad esempio assicurare l’assistenza sanitaria. Si tratta di
patti di convivenza di varia natura, di cui non saprei elencare le
diverse forme. Bisogna vedere i diversi casi e valutarli nella loro
varietà».
Come verrà promosso il ruolo della donna nella Chiesa?
«Anche
qui la casistica non aiuta. È vero che la donna può e deve essere più
presente nei luoghi di decisione della Chiesa. Ma questa io la chiamerei
una promozione di tipo funzionale. Solo così non si fa tanta strada.
Bisogna piuttosto pensare che la Chiesa ha l’articolo femminile “la”: è
femminile dalle origini. Il grande teologo Urs von Balthasar lavorò
molto su questo tema: il principio mariano guida la Chiesa accanto a
quello petrino. La Vergine Maria è più importante di qualsiasi vescovo e
di qualsiasi apostolo. L’approfondimento teologale è in corso. Il
cardinale Rylko, con il Consiglio dei Laici, sta lavorando in questa
direzione con molte donne esperte di varie materie».
A
mezzo secolo dall’Humanae Vitae di Paolo VI, la Chiesa può riprendere il
tema del controllo delle nascite? Il cardinale Martini, suo
confratello, riteneva che fosse ormai venuto il momento.
«Tutto
dipende da come viene interpretata l’Humanae Vitae. Lo stesso Paolo VI,
alla fine, raccomandava ai confessori molta misericordia, attenzione
alle situazioni concrete. Ma la sua genialità fu profetica, ebbe il
coraggio di schierarsi contro la maggioranza, di difendere la disciplina
morale, di esercitare un freno culturale, di opporsi al
neo-malthusianesimo presente e futuro. La questione non è quella di
cambiare la dottrina, ma di andare in profondità e far sì che la
pastorale tenga conto delle situazioni e di ciò che per le persone è
possibile fare. Anche di questo si parlerà nel cammino del Sinodo».
La
scienza evolve e ridisegna i confini della vita. Ha senso prolungare
artificialmente la vita in stato vegetativo? Il testamento biologico può
essere una soluzione?
«Io non sono uno specialista negli
argomenti bioetici. E temo che ogni mia frase possa essere equivocata.
La dottrina tradizionale della Chiesa dice che nessuno è obbligato a
usare mezzi straordinari quando si sa che è in una fase terminale. Nella
mia pastorale, in questi casi, ho sempre consigliato le cure
palliative. In casi più specifici è bene ricorrere, se necessario, al
consiglio degli specialisti ».
Il prossimo viaggio in
Terra Santa porterà a un accordo di intercomunione con gli ortodossi che
Paolo VI, cinquant’anni fa, era arrivato quasi a firmare con Atenagora?
«Siamo
tutti impazienti di ottenere risultati “chiusi”. Ma la strada
dell’unità con gli ortodossi vuol dire soprattutto camminare e lavorare
insieme. A Buenos Aires, nei corsi di catechesi, venivano diversi
ortodossi. Io trascorrevo il Natale e il 6 gennaio insieme ai loro
vescovi, che a volte chiedevano anche consiglio ai nostri uffici
diocesani. Non so se sia vero l’episodio che si racconta di Atenagora
che avrebbe proposto a Paolo VI che loro camminassero insieme e
mandassero tutti i teologi su un’isola a discutere fra loro. È una
battuta, ma importante è che camminiamo insieme. La teologia ortodossa è
molto ricca. E credo che loro abbiano in questo momento grandi teologi.
La loro visione della Chiesa e della sinodalità è meravigliosa».
Fra
qualche anno la più grande potenza mondiale sarà la Cina con la quale
il Vaticano non ha rapporti. Matteo Ricci era gesuita come lei.
«Siamo
vicini alla Cina. Io ho mandato una lettera al presidente Xi Jinping
quando è stato eletto, tre giorni dopo di me. E lui mi ha risposto. Dei
rapporti ci sono. È un popolo grande al quale voglio bene».
Perché Santo Padre non parla mai d’Europa? Che cosa non la convince del disegno europeo?
«Lei
ricorda il giorno in cui ho parlato dell’Asia? Che cosa ho detto? (qui
il cronista si avventura in qualche spiegazione raccogliendo vaghi
ricordi per poi accorgersi di essere caduto in un simpatico
trabocchetto). Io non ho parlato né dell’Asia, né dell’Africa, né
dell’Europa. Solo dell’America Latina quando sono stato in Brasile e
quando ho dovuto ricevere la Commissione per l’America Latina. Non c’è
stata ancora l’occasione di parlare d’Europa. Verrà ».
Che libro sta leggendo in questi giorni?
«Pietro e Maddalena di Damiano Marzotto sulla dimensione femminile della Chiesa. Un bellissimo libro».
E non riesce a vedere qualche bel film, un’altra delle sue passioni? «La grande bellezza» ha vinto l’Oscar. La vedrà?
«Non
lo so. L’ultimo film che ho visto è stato La vita è bella di Benigni. E
prima avevo rivisto La Strada di Fellini. Un capolavoro. Mi piaceva
anche Wajda...».
San Francesco ebbe una giovinezza spensierata. Le chiedo: si è mai innamorato?
«Nel
libro Il Gesuita, racconto di quando avevo una fidanzatina a 17 anni. E
ne faccio cenno anche ne Il Cielo e la Terra, il volume che ho scritto
con Abraham Skorka. In seminario una ragazza mi fece girare la testa per
una settimana».
E come finì se non sono indiscreto?
«Erano cose da giovani. Ne parlai con il mio confessore»
(un grande sorriso).
Grazie Padre Santo.
«Grazie a lei».
Il Corriere della Sera
05 marzo 2014